Giappone 2: l’Atomo, le radiazioni e la posizione della Chiesa giapponese

1. Cosa è successo a Fukushima

2. Le radiazioni, loro pericolosità e processo di decadimento
3. Chiesa giapponese: sviluppo di energie alternative e revisione di stili di vita troppo energivori.

        Scheda / L’atomo
e l’energia nucleare              

Abbiamo chiesto a un fisico di spiegare, in poche e
semplici parole, l’atomo, come funziona una centrale nucleare e cos’è successo
a Fukushima.

La materia che ci circonda,
compresa quella presente in noi stessi, è formata da atomi di un centinaio di
tipi diversi. Ogni atomo è composto da tre particelle fondamentali,
piccolissime: i protoni, i neutroni e gli elettroni. La stragrande maggioranza
della massa, cioè del materiale costituente un atomo, si trova nel suo
piccolissimo nucleo. In questo sono presenti un certo numero di protoni (con
carica elettrica positiva) e neutroni (questi servono a «incollare» i protoni
tra loro, che altrimenti si respingerebbero avendo la stessa carica elettrica).
Solo nel caso dell’elemento più leggero, l’idrogeno, il nucleo è privo di
neutroni; vi è presente infatti un solo protone e quindi non ci sono problemi
di repulsione elettrostatica.

La comprensione della struttura
degli atomi deve molto alla scoperta della radioattività, avvenuta nel 1896. Fu
una scoperta del tutto inattesa, che rivelò come in natura vi siano energie
enormi, milioni di volte maggiori di quelle sino ad allora conosciute. Queste
energie sono racchiuse nel minuscolo nucleo degli atomi. Fu straordinario
scoprire che, proprio nei volumi più piccoli accessibili all’indagine
scientifica, si nascondono energie fino ad allora inimmaginabili. La
radioattività permise un’affascinante gamma di studi, i quali, nel giro di
nemmeno cinque decenni, portarono alla più sconvolgente delle realizzazioni
tecnologiche: la bomba atomica. Al cuore di questo sviluppo c’è la cosiddetta
reazione a catena, nella quale i nuclei di certi rari atomi, come l’uranio 235
(il 235 indica il numero totale di protoni e neutroni presenti nel nucleo),
vengono spaccati dall’impatto di neutroni di energia appropriata. La cosa
importante è che, oltre ai velocissimi (e quindi assai energetici) frammenti di
nucleo, con l’impatto vengono liberati anche alcuni neutroni, i quali, se si è
progettato bene l’apparato, possono indurre la frammentazione (o «fissione»,
per usare il termine tecnico più appropriato) di altri nuclei posti nei pressi.
Questo processo avviene assai rapidamente e, se si riesce a far spaccare una
gran parte dei nuclei presenti, ciò consente di ottenere deflagrazioni gigantesche: le esplosioni nucleari (o, più
volgarmente, atomiche).

Ma la liberazione di energia
nucleare può anche avvenire in maniera non esplosiva. Infatti, con grande
perizia, si può controllare la reazione a catena, sfruttando la possibilità di
variare il numero dei neutroni che causano le fissioni. Questo si fa
introducendo, tra gli atomi da spaccare, alcuni atomi il cui nucleo cattura i
neutroni liberi che lo colpiscono. Si tratta dei cosiddetti veleni neutronici
(uno di questi elementi è, ad esempio, il boro). Questo apre la possibilità di
realizzare una centrale nucleare, in cui l’energia necessaria per far girare le
turbine (che producono l’elettricità) deriva dalla rottura dei nuclei di uranio
a un tasso limitato e controllato. Tra una centrale nucleare e una
convenzionale (che brucia combustibili fossili) la differenza nella produzione
energetica è tutta qui; gli altri componenti dell’impianto, pompe, condensatori,
turbine, alternatori sono fondamentalmente identici.

Per consentire la gestione in
sicurezza di una centrale nucleare si deve sempre garantire un adeguato
raffreddamento del nocciolo dell’impianto, cioè di quella zona dove avvengono
le reazioni di fissione. L’energia liberata è infatti ingentissima e assai
concentrata, non solo durante il funzionamento normale, ma per molti giorni
anche dopo che la reazione a catena si è arrestata. L’arresto viene ottenuto
inserendo una sufficiente quantità di veleni neutronici, contenuti nelle
cosiddette «barre di controllo». Se tutte sono inserite nel nocciolo la
reazione a catena si ferma; se invece man mano vengono estratte, allora la
reazione riprende con sempre maggior vigore. Per evitare danni seri e possibili
disastrose conseguenze ambientali, la gestione di un impianto elettronucleare
deve essere fatta evitando che il nocciolo del reattore superi le temperature
previste dal progetto. Nella maggior parte dei casi ciò viene fatto
convogliando grandi quantitativi di acqua sul nocciolo, grazie a potenti pompe
(per dare un’idea: 60 metri cubi al secondo per una centrale da 1000 MW). In
mancanza del raffreddamento, la temperatura delle barre di combustibile può
velocemente raggiungere le migliaia di gradi centigradi, con la conseguente
fusione dei materiali che le costituiscono e il rilascio delle sostanze (assai
radioattive) in esse contenute.

È il caso di specificare che, per
realizzare una centrale nucleare, la disposizione e la concentrazione del
materiale atomico sono assai differenti da quelle proprie della bomba. Questo
non vuol dire che una centrale non possa esplodere, ma si trattererebbe in tal
caso di una esplosione «convenzionale», dovuta all’accumulo di gas e alla loro
eventuale reazione chimica e non a una reazione nucleare di tipo incontrollato.

Negli ultimi decenni si sono avuti
alcuni gravissimi incidenti in impianti nucleari civili: Cheobyl nel 1986 e
appunto Fukushima nel 2011. Se nel primo caso ciò è stato dovuto principalmente
alla disattenzione e impreparazione dei tecnici addetti all’impianto (Cheobyl
e il Trentino. La paura atomica nel piatto
, in bibliografia, ndr) e
solo in seconda battuta alle debolezze tecniche dell’impianto stesso, nel
secondo il disastro è stato conseguenza solo dell’incapacità di stimare con
precisione il rischio dovuto agli tsunami. Per poter disporre delle grandi
quantità di acqua necessarie al suo funzionamento, la centrale di Fukuhima è
stata posizionata sulla costa. Essendo il Giappone un paese notoriamente soggetto
a forti terremoti, l’impianto era stato progettato non solo per resistere alle
scosse telluriche, ma si era anche provveduto a costruire delle barriere sul
lato mare, così da proteggerlo dalle distruttive onde di marea (gli tsunami,
appunto) che spesso accompagnano i terremoti. I progettisti avevano però
valutato male l’onda massima prevista.

Quella che l’11 marzo 2011 si
abbatte sulla terraferma ha un’altezza tale da superare le barriere, allagando
la centrale (o meglio le centrali; a Fukushima erano infatti operativi ben sei
reattori, in edifici separati l’uno dall’altro, ma vicini). Al momento delle
ondate, la reazione a catena è già bloccata, essendo intervenuti sin dalle
prime scosse i sistemi automatici di sicurezza, ma permane, come abbiamo spiegato,
la necessità assoluta di raffreddare il nocciolo del reattore. Qui cominciano i
problemi.

La forza del terremoto interrompe
le linee elettriche che collegavano la centrale alla rete elettrica nazionale.
Questo impedisce alla centrale, che – avendo fermato le proprie turbine – ora
non produce più elettricità, di ricevere dall’esterno l’energia necessaria a
far funzionare le pompe di raffreddamento. Un evento del genere era stato
previsto nel progetto di Fukushima: in questo caso dovrebbero intervenire dei
grandi generatori diesel appositamente predisposti. Gli alloggiamenti di
questi, posizionati troppo in basso, vengono però invasi dalle acque e la
maggior parte dei serbatorni del loro combustibile sono distrutti. Si fa allora
ricorso a una terza linea di difesa, costituita da grosse batterie. Per varie
ore esse garantiscono il funzionamento delle pompe (almeno di quelle non
danneggiate), ma alla fine anch’esse giungono a esaurimento. A questo punto la
situazione si fa drammatica. Stante la scala del disastro causato dal terremoto
e dal successivo tsunami, risulta impossibile ristabilire le connessioni
elettriche con la rete; non si trova il modo di far ripartire (o di
rimpiazzare) i generatori d’emergenza; non si possono portare altre batterie;
la centrale non può quindi raffreddare il nocciolo, che comincia a salire di
temperatura, fondendo i materiali che lo costituiscono e causando un accumulo
di gas. Delle esplosioni squarciano tre edifici di contenimento; tre reattori
vengono pesantemente danneggiati, oltre ogni possibilità di recupero; in
atmosfera e nel mare vengono immesse grandi quantità di sostanze radioattive,
che vanno a contaminare non solo la zona della centrale ma un territorio assai
vasto. Un vero disastro ambientale, umano ed economico. Già, anche economico,
in quanto la sola distruzione dei reattori rappresenta una perdita netta
immediata di ben oltre dieci miliardi di dollari, senza contare la perdita di
introiti dall’elettricità non più prodotta. E non parliamo poi del costo
derivante dall’evacuazione della popolazione da una zona di venti chilometri di
raggio attorno alla centrale. Ma la situazione sarebbe potuta degenerare con la
fuoriuscita di radioattività in quantità enormemente superiori, aumentando di
molto il numero di civili da evacuare dalle zone circostanti.

Per vari giorni gli addetti alla
centrale e la protezione civile giapponese cercano in tutti i modi di riportare
l’impianto  sotto controllo. Questo è
reso difficile dai danni subiti e dall’impossibilità di lavorare in molte aree
a causa delle radiazioni troppo intense. Si ricorre al getto di acqua da parte
di elicotteri, che si dimostra però assai poco efficace; si usano autopompe
giganti per spruzzare acqua sopra i noccioli esposti dei reattori. Con
abnegazione e affrontando grandi rischi i tecnici e gli addetti riescono a
tamponare come meglio possono il disastro, non riuscendo però ad evitare che
grandi quantità di sostanze radioattive finiscano nell’ambiente terrestre e
marino. Ancora al momento in cui scriviamo queste righe – fine settembre 2013 –
le perdite continuano.

Mirco Elena

 

       Scheda / Le
radiazioni e gli effetti sull’uomo                 

Le radiazioni possono essere pericolose o mortali perché
interferiscono con il Dna degli esseri viventi. Ma occorre distinguere atomo da
atomo. E ancora: cos’è il processo di «decadimento»? Proviamo a fornire qualche
conoscenza elementare.

Parleremo di radiazioni ionizzanti,
cioè di quelle forme di energia che, sconvolgendo la nuvola di elettroni che
circonda i nuclei atomici, possono causare pesanti danni al Dna delle cellule
degli organismi viventi. Storicamente si parla di radiazioni di tipo alfa,
beta, gamma, oltre che dei neutroni. Altre radiazioni, come quelle
elettromagnetiche di bassa energia (onde radio, microonde, infrarosso, luce
visibile, ultravioletto non estremo) sono tutt’altra cosa e sono assai meno
pericolose. Le alfa sono nient’altro che nuclei di atomi di elio, costituiti da
due protoni e due neutroni; le beta sono elettroni; le gamma sono un tipo di
luce di frequenza altissima. La loro capacità di penetrazione è assai varia: le
gamma possono attraversare spessori di cemento superiori al metro; le alfa
vengono invece bloccate da un semplice foglio di carta. Le beta sono intermedie
tra queste due. Anche i neutroni possono attraversare grandi spessori di
materiale.

Da quanto detto sinora si potrebbe
essere tentati di pensare che le alfa siano le meno pericolose perché penetrano
di meno; sbagliatissimo! Infatti dobbiamo riflettere sul fatto che se è vero
che esse vengono bloccate in un brevissimo spazio, ciò vuol dire che tutta
l’energia da esse trasportata viene ceduta a una piccola zona del bersaglio,
ove quindi la concentrazione del danno sarà assai elevata. Viceversa, se una
radiazione deposita la propria energia all’interno di uno spessore rilevante di
materiale, ciò vuol dire che i danni saranno più distribuiti. Pensando ai
sistemi biologici, ciò vuol dire che se i danni sono forti e concentrati sarà
più difficile che i sistemi di riparazione cellulare siano in grado di
effettuare un buon lavoro. Ecco quindi perché il rischio da particelle alfa su
tessuti viventi viene considerato venti volte superiore rispetto al caso in cui
la medesima quantità di energia viene depositata da raggi gamma. Tenendo però
presente che le alfa sono bloccate da piccoli spessori, possiamo capire che
esse presentano per noi un rischio solo nel caso vengano inalate o ingerite; in
tutti gli altri casi, la nostra pelle (il cui strato esterno è costituito da
cellule morte) è già sufficiente per schermarci.


vari atomi radioattivi posso emettere radiazioni di tipo differente. Nel
processo di «decadimento» essi si trasformano in altre sostanze, che possono
essere anch’esse radioattive. In tal caso il decadimento prosegue fino a che si
arriva ad avere un atomo stabile. Una delle cose sorprendenti della fisica è
relativa ai tempi che caratterizzano i decadimenti; questi possono essere
straordinariamente differenti da atomo ad atomo e noi non possiamo intervenire
in nessun modo a cambiarli. Si va dai miliardesimi di secondo (e anche molto
meno) di certi tipi di atomi ai 4,5 miliardi di anni dell’uranio 238, e anche
oltre. Questo vuol dire che a seguito di un incidente come quello di Fukushima
ci troviamo a far fronte ad un inquinamento complesso, con la presenza
nell’ambiente, sul terreno, nelle acque, nell’aria di atomi con tempi di
dimezzamento (il tempo necessario perché metà del materiale radioattivo
inizialmente presente decada) assai vario.

Ciò ha importanti conseguenze dal
punto di vista delle azioni di rimedio. Infatti se abbiamo un ambiente
inquinato da iodio 131 (il cui tempo di dimezzamento è di soli otto giorni),
allora basta attendere alcune settimane ed esso scompare spontaneamente
dall’ambiente, che quindi si «autodisinquina». Differente è il discorso per
quanto riguarda le persone: in quelle poche settimane di esposizione allo iodio
131 sarà indispensabile fornire loro supplementi di iodio non radioattivo da
aggiungere agli alimenti, così da – mi si passino i termini – «saziare», «intasare»
la loro tiroide, che altrimenti si «abbufferebbe» con lo iodio pericoloso. Se
invece abbiamo presenza di atomi di lunga durata, ad esempio il cesio 137 (che
dimezza in trent’anni), dovremmo aspettare qualche secolo perché la loro
concentrazione si riduca a valori sufficientemente bassi, e quindi può
risultare indispensabile intervenire direttamente, ad esempio asportando il
terreno o piantando colture che li concentrino per poi raccoglierle e
seppellirle in discariche adatte. Ancora peggiore è il caso se nell’ambiente è
stato disperso plutonio 239, con un tempo di dimezzamento di 29.000 anni.

Per misurare la quantità di
radiazioni presenti in un certo ambiente o in un organismo si usano varie unità
di misura, piuttosto complesse e, per rendere le cose ancor più problematiche,
differenti tra l’Europa, dove vige il sistema internazionale, e gli Usa dove
persiste l’uso di antiche unità tradizionali. Non ci pare essenziale fornire
qui un quadro completo. Ci limitiamo solo a fornire un paio di nozioni, utili
per interpretare le notizie che i media, di quando in quando, ci propongono nei
loro servizi.

Ecco quindi che il becquerel (in
sigla: Bq) misura la cosiddetta attività e corrisponde a un decadimento
radioattivo al secondo. Pertanto, se leggiamo che nell’aria contenuta in una
stanza l’attività è di 200 Bq al metro cubo, ciò vuol dire che nel corso di un
secondo in un metro cubo di quel volume si avranno 200 decadimenti, con
l’emissione delle rispettive radiazioni. Nel caso dei cibi si parla spesso di
Bq/kg o Bq/litro. Per dare un esempio, le normative europee indicano in 200
Bq/m3 il valore di concentrazione da non superare per il gas radioattivo radon
presente nell’aria delle nostre case.

Il sievert (in sigla Sv) misura
invece la dose assorbita, cioè la quantità di radiazione depositata in un
bersaglio (ad esempio il nostro corpo, o uno specifico organo), tenendo però
conto non solo della quantità di energia, ma anche delle caratteristiche della
radiazione incidente e delle proprietà del tessuto colpito. Una dose di un Sv è
una quantità molto grande; si pensi che mediamente un cittadino italiano
assorbe circa 3 millesimi di Sv all’anno. Una dose di pochi Sv risulta mortale
per l’essere umano.

Mirco Elena

 
 
     La Chiesa cattolica del Giappone                                                    


     «CHIUDERE IMMEDIATAMENTE GLI IMPIANTI NUCLEARI»         

Sulla questione nucleare la posizione della Chiesa
cattolica giapponese è sempre stata chiara: necessità di sviluppo delle energie
alternative, ma anche riconoscimento dei limiti umani e revisione di stili di
vita troppo energivori. L’esatto contrario delle posizioni del primo ministro
Abe.


Osaka. Scrivo questo commento
per Missioni Consolata mentre vari programmi televisivi giapponesi
stanno ripetendo all’infinto la notizia che Tokyo ospiterà le Olimpiadi estive
del 2020. L’esultanza che questo annuncio sta suscitando nei Giapponesi è più
che comprensibile. Ma appena l’eco delle urla di gioia, degli abbracci e dei
vari proclami di benvenuto si affievoliscono, ecco che altre notizie più
preoccupanti fanno capolino sugli schermi. Il problema è presto detto: Tokyo
dista appena 250 chilometri da Fukushima, e la situazione alla centrale non è
certo delle più sicure. L’ultimo problema riguarda la fuga di acqua radioattiva
(usata per raffreddare i reattori) che si starebbe riversando in mare
provocando ulteriori danni all’ambiente. Ecco perché il primo ministro Abe, di
fronte al Comitato Olimpico Internazionale, ha rassicurato gli ascoltatori
affermando che «gli effetti dell’acqua contaminata sono stati perfettamente
contenuti all’interno della baia artificiale (costruita attorno alla centrali, ndr
e che la situazione è «sotto controllo».

Che questa affermazione del primo ministro sia accurata
o meno, forse poco importa: ciò che conta davvero, e le parole di Abe lo
confermano una volta di più, è che il Giappone non sembra ancora capacitarsi
della tragedia in atto e, soprattutto, che sia troppo orgoglioso per aprire un
di-battito pubblico sull’uso o meno dell’energia atomica e sulla sicurezza
delle sue 54 centrali nucleari. Una difficoltà, questa, a cui la Conferenza
episcopale giapponese aveva negli anni scorsi più volte accennato insistendo
affinché il governo rivedesse le sue politiche nucleari e desse vita a una
consultazione popolare sulle stesse.

Una delle recenti petizioni promosse dalla Conferenza
episcopale, prima ancora che il terribile tsunami si abbattesse su Fukushima,
riguardava un incidente avvenuto presso una piccola fabbrica di combustibile
nucleare a Tokaimura il 30 settembre 1999. L’incidente, generato dalla
miscela-zione accidentale di uranio e acido nitrico al di fuori delle regole
imposte dal ministero, aveva procurato la morte di 2 operatori e la contaminazione
di molte altre persone. In quella circostanza, la Conferenza aveva scritto
all’allora primo ministro Obuchi Keizo pregandolo di intervenire sui seguenti
punti: offrire l’opportunità alla popolazione di scegliersi quale tipo di fonte
energetica usare; ricontrollare tutte le centrali attive nel paese per
accertarsi che non ci siano mal funzionamenti; preparare la gente con
esercitazioni apposite in caso di incidenti o fughe radioattive; chiedere delle
revisioni dei siti nucleari a delle organizzazioni indipendenti; rendere
obbligatorie visite mediche per coloro che lavorano alle centrali e offrire
delle assicurazioni che contemplino il caso di contaminazione nucleare; e
infine, rendere pubbliche tutte le informazioni riguardanti l’incidente e lo
stato in cui versano gli altri impianti nucleari.

Di più, al n. 75 del documento «Rispetto per la vita –
Un messaggio dai vescovi giapponesi per il XXI secolo», pubblicato il 1 gennaio
2001, i vescovi affermavano che «La scoperta e l’uso dell’energia nucleare…
hanno offerto un’inedita fonte di energia all’umanità ma, come possiamo
constatare dalla simultanea distruzione della vita umana a Hiroshima e
Nagasaki, dal disastro di Cheobyl e dall’incidente avvenuto a Tokaimura, essa
può anche trasmettere enormi problemi alle generazioni future. Per usarla
correttamente abbiamo bisogno di riconoscere i nostri limiti e di esercitare la
massima cautela. Per evitare tragedie, dobbiamo sviluppare dei mezzi
alternativi più sicuri per produrre energia». Il documento lanciava poi un
accorato appello affinché il Giappone rivedesse il suo stile di vita fin troppo
fiducioso dei risultati scientifici e eccessivamente dipendente da un uso
spropositato non solo di energia atomica, ma anche elettrica. E se,
assecondando questo ripensamento, il Giappone si fosse ritrovato a essere meno
competitivo sul piano economico, ebbene, affermava il documento, almeno sarebbe
vissuto senza più paura di incidenti nucleari e sarebbe finalmente ritornato
alle sorgenti della sua cultura, saggezza e tradizione (shintornista, buddhista e
anche cristiana) che lo vedevano coesistere pacificamente con la natura.

Tutte queste raccomandazioni, inutile dirlo, si sono
rivelate dei semplici desideri, o delle voci troppo flebili per contrastare le
urla di coloro che continuavano ad invocare il proseguimento di un sistema
economico altamente dispendioso in termini di risorse sia energetiche che
umane.

Eppure, malgrado il
silenzio che ha accompagnato le sue esortazioni, la Conferenza episcopale si è
sentita in obbligo di lanciare altri messaggi in occasione degli anniversari
del disastro di Fukushima. L’ultimo, datato 22 febbraio 2013, constatava il
fatto che a due anni dalla tragedia non si può certo dire che la pace e la
speranza siano state restituite alla popolazione di quelle zone afflitte, e
neppure che si possa dare vita a una benché minima ricostruzione. Le 160.000
persone evacuante da Fukushima, che vivono in abitazioni temporanee, vedono le
loro forze fisiche sbriciolarsi giorno dopo giorno; il numero dei giovani che
abbandono i paesi vicini in cerca di lavoro sono sempre più numerosi; aumentano
le famiglie separate perché molte mamme con i loro bambini lasciano il marito
per andare a vivere in zone del Giappone ritenute più sicure… Nonostante questo
dramma la Chiesa continua a stare accanto alle persone offrendo loro supporto
materiale e spirituale, cerca continuamente di dare loro speranza e forza
stabilendo relazioni tra gli abitanti della regione e aiutandoli a ricostruire
comunità quasi irrimediabilmente infrante dalla tragedia.

Ma forse, e più coraggioso di tutti, è stato
l’appello lanciato il 22 dicembre 2011 dal vescovo di Sendai, Martin Tetsuo
Hiraga, contro la discriminazione nei confronti di coloro che vivono nelle zone
colpite dal disastro. Una discriminazione perpetuata non soltanto nei confronti
delle persone e dei prodotti di quella regione, ma anche (e ancor più
tristemente) nei confronti della sciagura stessa. Come si afferma nell’appello:
«La situazione non migliorerà di certo rigettando Fukushima. È solo accettando,
rimanendo vicini e dimostrando solidarietà alla popolazione di Fukushima che
scopriremo la via da seguire. Ciò che dobbiamo respingere non è Fukushima, ma
la nostra volontà a escludere e discriminare, sentimenti questi che rappresentano
i veri ostacoli verso la solidarietà nei confronti della gente di Fukushima.
Dobbiamo inoltre opporci alle politiche nucleari che hanno creato questa
situazione».

Il messaggio ad Abe e al suo tentativo di
sdrammatizzare il disastro nucleare in atto non avrebbe potuto essere più
chiaro. Non resta che sperare che le stesse acclamazioni di esultanza per la
scelta di Tokyo come città ospitante le prossime Olimpiadi, possano un giorno
essere seguite da quelle che finalmente annunciano il raggiungimento di un
futuro più sicuro per tutti gli abitanti di Fukushima, nome questo ormai
diventato uno dei tanti simboli di come (e di quanto!) l’uomo possa
irrimediabilmente farsi del male se lasciato solo in balia di se stesso.

Tiziano Tosolini
 

Mirco Elena e Tiziano Tosolini

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