40 anni: ma è solo l’inizio Cisv di Torino: anniversario della presenza in Africa

Anni Sessanta.
Un prete e un gruppo di volontari laici. Operano nel sociale a Torino. Poi il
salto. Un vescovo del continente «nero» chiede aiuto. E loro non si tirano indietro.
Inizia così l’avventura della Cisv in Burundi. Che si allarga in seguito ad
Africa dell’Ovest, America Latina, Caraibi. Oggi in 12 paesi di tre continenti.

«Polvere. Rossa e ovunque. Nelle
scarpe, nei capelli e nella tosse. Spesso sotto i denti. Nella stagione delle
piogge diventa fango, nei giorni di vento brucia gli occhi. Non riuscivo mai a
lavarmela via di dosso…». Donatella Barberis, infermiera di Chieri (To),
ricorda così il primo impatto con il Burundi, dove approdò nel 1986 come
cornoperante dell’associazione Cisv (www.cisvto.org). «Cosa mi ha spinto ad
andarci? All’epoca, poco più che 20enne, sintetizzavo così: “gli ideali non
sono mortadella, bisogna viverli fino in fondo!”. La verità è che sentivo il
bisogno di fare qualcosa di grande, di aiutare i poveri, ma soprattutto di
scappare. Dal reparto di bambini leucemici in cui lavoravo e in cui moriva
anche la mia giovinezza». Così, dopo un periodo in Kenya con le suore della
Consolata, sentendosi più matura e consapevole Donatella ha deciso di tornare
in Africa per una nuova esperienza. Stavolta «per due anni senza rientri, in un
progetto sperduto sulle colline di un paese a forma di cuore».

L’avventura
Cisv in Burundi è però iniziata ben prima, quando – il 4 agosto 1973 – un
manipolo di volontari passati alla storia come i «magnifici sette» lasciarono
tutto per mettersi al servizio dei più poveri tra i poveri. Questi primi
volontari – donne e uomini di varia provenienza, operai, sarte, infermiere, meccanici…
– partirono senza appoggi, senza un progetto definito, armati solo «della fede
in Dio, di fiducia e buona volontà, forti della generosità degli amici rimasti
in Italia e pronti a sostenerci a costo di grandi sacrifici» ricorda Mario
Foero, esperto falegname, oggi 81enne.

L’occasione
per questa «avventura burundese» arrivò su stimolo dell’arcivescovo di Torino
Michele Pellegrino, che da tempo – sull’onda del Concilio Vaticano II –
auspicava una missione animata anche da laici, ritenuti in grado di creare
maggior vicinanza con la gente. Monsignor Pellegrino aveva rilanciato l’appello
del vescovo burundese di Gitega, mons. Makarakiza, preoccupato per le gravi
condizioni economico-sociali del suo paese. Facendo proprio questo appello, don
Giuseppe Riva, fondatore della Cisv, di cui ricorrono 10 anni dalla scomparsa,
scriveva: «Si è operata la scelta del Burundi perché è uno dei popoli con
reddito più basso del mondo dei poveri […] si è preferito vivere e lavorare
in comunità, mettendo tutto in comune per superare l’isolamento,
l’individualismo…».

Così
i volontari ruppero gli indugi dando il via all’impegno dell’associazione nel
Sud del mondo, che oggi si concretizza in dodici paesi tra Africa e America
Latina.

Lunghi anni di guerra

Il Burundi, con i suoi 9 milioni di abitanti, è ancora tra i paesi
più poveri al mondo, al 185° posto su 187 nell’Indice di sviluppo umano (dati
2012). Qui Cisv lavora per garantire i diritti essenziali – cibo, acqua,
istruzione, salute… – ormai da 40 anni. Un aspetto da sottolineare è lo sforzo
di continuità degli interventi, per cui la Cisv ha messo più radici in alcune
località del paese, come la provincia di Karusi. Un impegno riconosciuto e
apprezzato dalla popolazione stessa, come ricorda Anacleto Gahene, un infermiere
locale: «Mi torna spesso in mente la scena del gran numero di donne che, con i
bambini gonfi per il kwashiorkor (marasma infantile, malnutrizione
accompagnata da addome gonfio) iniziavano a frequentare il Centro di Nyabikere
in cui si foivano lezioni di alimentazione. Le mamme hanno acquisito la
capacità di salvare la vita dei propri figli senza ricorrere a stregoni e
amuleti. Dopo un po’ molte non dovevano più essere seguite a casa dagli
animatori, tanto bene avevano capito l’importanza di un’alimentazione adeguata».

L’opera dei volontari è continuata anche negli anni più bui della
guerra civile, dal ‘93 al 2005, che ha mietuto numerose vittime tra gli stessi
amici e collaboratori locali più stretti della Cisv.

«A distanza di anni, faccio ancora fatica a parlare di quel
periodo» dice Mariangela Rapetti, cornoperante in Burundi negli anni ’93-’94. «Era
ottobre, a Gitega mancava la corrente elettrica, dicevano che i contadini
avevano danneggiato un traliccio. Forse c’erano dei segnali, ma noi non avevamo
l’esperienza per interpretarli. Fino al fatidico mattino del colpo di stato. In
capitale tutto si risolse in una notte, ma da noi uccisioni e sparatorie non
diedero tregua. Ricordo gli occhi delle persone, grandi, pieni di terrore o di
odio, il rumore degli spari, il latrare dei cani e le lunghe notti buie». I
volontari iniziarono allora a mobilitarsi per accogliere le persone in fuga. «Godance,
direttrice della scuola per sordomuti, con i suoi collaboratori e 40 bambini
furono accompagnati nel centro dell’arcivescovado, alcuni trovarono rifugio a
casa nostra, e nelle case Cisv di Rabiro dove i volontari diedero ospitalità a
200 persone. In 48 ore si radunarono 2.000 persone all’arcivescovado, molte
ferite, lascio immaginare le condizioni igieniche e… cosa dare da mangiare?
Ogni giorno andavamo lì, ognuno faceva quel che sapeva e poteva, avevamo così
poco».

«La gente ci chiedeva di non andarcene, volevano che restassimo a
vedere quel che succedeva. Per loro eravamo un po’ come sentinelle, la nostra
presenza li faceva sentire più sicuri» ricorda Alessandra Casu, veterinaria,
che è stata in Burundi dal ’91 al ’96, e oggi è responsabile dei progetti Cisv
nel paese.

«Durante la guerra era difficile lavorare,
occorreva stare attenti a dove si andava e a cosa si faceva, si rischiava la
propria incolumità» dice Marco Bello, volontario nel paese africano dal ’98 al
2000. Marco, ricorda che all’epoca furono uccisi diversi amici religiosi (vedi
MC marzo 2001
), «testimoni scomodi che lavorando a fianco della popolazione
più abbandonata erano tra i pochi a sapere e, a volte, a denunciare». In
effetti «la Chiesa, le parrocchie, le missioni erano riferimenti importanti per
la gente; su quel territorio privo di strutture industriali e commerciali,
erano sedi di potere reale» racconta Francesco De Falchi, cornoperante Cisv in
Burundi dal ’94 al ’99, ricordando anche lui «la tragedia della Chiesa locale
così compromessa nella contrapposizione etnica e con il suo tributo di morti
ammazzati». Francesco ha un po’ di nostalgia della religiosità burundese: «Ricordo la messa della domenica. Da quella
dei centri minori come Muyinga, dove il ritmo dei tamburi esaltava i canti
tradizionali, a quella della cattedrale di Bujumbura, trasmessa per radio, a quella
più di élite nel chiostro della Nunziatura. Testimonianze di una grande
tensione religiosa, lontana dal tiepido clima delle nostre parrocchie».

Burundi oggi

Ma qual è adesso, dopo le devastazioni della guerra civile, la
situazione del Burundi, alle prese con i problemi endemici di fame, scarsità di
terre, isolamento, difficoltà di scambi? «Oggi il paese inizia finalmente a
vivere in pace, anche se non mancano le tensioni, e a sperimentare nuove
pratiche democratiche» spiega Federico Perotti, presidente Cisv e cornoperante in
Burundi a inizio anni ’90 (vedi box). «Quanto ai nostri 40 anni di lavoro,
posso dire con una punta d’orgoglio che quanto Cisv ha fatto è rimasto, dimostrandosi
sostenibile nel tempo». Ne sono un esempio non solo le decine di scuole
primarie, le 13 cornoperative agricole, i centri di salute, gli impianti per
l’acqua costruiti grazie alla collaborazione tra l’Ong e le associazioni
locali, ma anche il contributo alla ricostruzione del tessuto sociale del
paese: dai progetti per garantire la partecipazione democratica della
popolazione a quelli per il rientro dei profughi rimasti senza terre. «I
risultati del lavoro Cisv hanno un impatto anche visivo» aggiunge Alessandra
Casu. «Ad esempio a Rabiro, il primo luogo in cui sono stata, all’inizio non
c’era nulla, solo capanne sparse. Adesso ci sono le scuole, l’ospedale, strade
più curate, c’è un centro per la trasformazione del caffè. E i tetti delle
abitazioni, prima in lamiera, sono oggi tutti in cotto».

«Questi risultati sono stati possibili perché, oltre alle
competenze tecniche, i volontari ci hanno messo il cuore» tiene a precisare
Perotti, «mantenendo questo stile anche in Italia». Degli oltre 70 espatriati
in Burundi, infatti, molti hanno costruito reti di solidarietà e sviluppo anche
al rientro nel nostro paese: come Mario Foero e la moglie Maria, che hanno
animato due comunità laiche, o Gabriella Ambrosi, che si occupa di accoglienza
a profughi e senza fissa dimora, o ancora Sara Fischetti, giovane veterinaria
impegnata per il diritto al cibo e l’agricoltura biologica e sostenibile.

40 anni e non sentirli

Ognuno di questi volontari ha lasciato in
Burundi un segno, ricevendone a sua volta un ricordo indelebile, come Donatella
Barberis: «Non sono malata di mal d’Africa, ho sempre avuto chiaro in mente che
le mie radici sono qui e che ogni terra appartiene al suo popolo. Ma non potrò
mai dimenticare… Si è volontari per sempre, legati a una terra e a un popolo da
legami di solidarietà inestricabili. Non so se ho fatto e dato qualcosa di
buono al Burundi, ma lui ha dato e insegnato moltissimo a me. Ho spesso pensato
che prima o poi avrei dovuto dire grazie, e forse questa ricorrenza dei 40 anni
Cisv nel paese è l’occasione giusta. Urakoze, grazie».

I volontari hanno festeggiato la ricorrenza a cominciare da
Bujumbura, capitale del paese, dove il 4 agosto, giorno del «compleanno», si è
organizzata una serata di riflessioni e cena condivisa con i collaboratori vecchi
e nuovi. Per l’occasione sono state realizzate magliette e striscioni che, con
le loro tinte patriottiche, hanno evidenziato i legami tra Italia e Burundi:
verde bianco e rosso sono infatti i colori delle bandiere di entrambi i paesi.
Mentre i cooperanti giunti da tutta Italia (qualcuno anche da più lontano) si
sono incontrati a Torino a fine settembre per una giornata di festa dove, tra
gioia e commozione, è stato riconfermato l’impegno Cisv a continuare il cammino
con il popolo burundese. Perché, come dice Mariangela Rapetti, «lì abbiamo
ricevuto un grande insegnamento: l’importanza di condividere. Indipendentemente
da quello che sai o puoi fare, condividere è l’unica cosa che conta».

Stefania
Garini



       Burundesi? Gente di montagna                                 

Federico Perotti è presidente Cisv dall’aprile di
quest’anno (2013). Ingegnere idraulico, all’inizio del suo percorso fu anche
volontario in Burundi. E da sempre è buon amico dei missionari della Consolata.
Ecco la sua visione del paese.


Tu sei stato la prima volta in Burundi a inizio anni
Novanta. Com’era allora il paese?

«Al mio arrivo, nel gennaio ’91, era in corso il
processo di democratizzazione avviato dal leader Buyoya. Fu approvata
tra l’altro la Carta di unità nazionale che doveva evitare scontri e tensioni
tra le etnie. Nel giugno ’93 le elezioni presidenziali si conclusero con la
vittoria di Ndadaye. Fu un momento di grandi speranze, anche per l’andamento
dei nostri progetti, che stavano avendo impatti significativi con
collaborazioni importanti con i municipi e i servizi tecnici. Ma, poche
settimane dopo il suo incarico, Ndadaye fu assassinato e il colpo di stato
infranse tutte le speranze. La distinzione etnica tra hutu e tutsi
non fu la sola causa del conflitto, ma fu usata come pretesto per mascherare
interessi politico-economici».

Quanto ha pesato la guerra civile sul lavoro dei volontari?

«La guerra, con il suo corredo di morti, tensioni e
instabilità ha avuto forti ripercussioni per oltre una decina d’anni: nel 2005
il Burundi si trovava nelle stesse condizioni del 1993; di fatto una grossa
retromarcia da tutti i punti di vista: economico, sociale, delle relazioni.
Diversi nostri collaboratori burundesi furono uccisi. I volontari però, a parte
un brevissimo periodo in cui furono evacuati per motivi di sicurezza,
continuarono a lavorare durante gli scontri e anche in seguito, intervenendo su
più fronti: dai progetti di sviluppo per la produzione e l’autosufficienza
alimentare, agli interventi per la ricostruzione di quanto era andato
distrutto, scuole, ospedali, case. È anche merito dei nostri volontari se circa
30.000 rifugiati hanno potuto rientrare in patria trovando un tetto ad
accoglierli. L’anno scorso a Bujumbura ho incontrato monsignor Simon Ntamwana,
arcivescovo di Gitega; lui ha seguito Cisv in tutti questi anni e mi ha
confermato la sua stima, ci considera “amici e fratelli del suo popolo, fedeli
fino in fondo in tutti questi anni travagliati”».

Il popolo burundese è piuttosto schivo e riservato. Che
rapporti si sono creati tra i volontari e la gente?

«I burundesi sono gente di
montagna, o meglio, di collina, un po’ chiusi e diffidenti. A differenza di
altre popolazioni africane non vivono riuniti in villaggi ma sparsi sul
territorio, ognuno nella sua capanna. La dimensione è quella delle famiglie e
dei clan, si creano relazioni solo in occasioni particolari, come al mercato. È
solo di recente che hanno iniziato a formarsi alcuni villaggi, per esigenze di
elettrificazione. In questo contesto lavorare per lo sviluppo è più faticoso,
ci va più tempo. Malgrado ciò, soprattutto con alcuni volontari, si sono creati
buoni legami personali. Io stesso, dopo oltre 20 anni, sono ancora in contatto
con alcuni amici burundesi, con cui mi sento regolarmente».

Qual è la situazione attuale del paese?

«L’economista Paul Collier nel libro L’ultimo
miliardo cita, tra le caratteristiche che rendono i paesi a rischio di
ricadere in spirali di miseria e instabilità, la povertà, il problema delle
risorse naturali, la corruzione, i conflitti. Il Burundi presenta questi
tratti, cui va aggiunta la fortissima pressione demografica: quasi nove milioni
di abitanti su un territorio pari a Piemonte e Valle d’Aosta, concentrati
soprattutto nelle aree rurali dove i fazzoletti di terra sono sempre più
esigui. Qui è molto difficile intervenire, stimolando iniziative autonome che
poi procedano sulle proprie gambe. Noi però proviamo a raccogliere la sfida,
confidando nei risultati del processo di stabilizzazione appoggiato anche
dall’Onu, che ha favorito le nuove istituzioni democratiche del paese in cerca,
faticosamente, della propria strada».

Sapresti fare un bilancio di questi 40 anni Cisv in
Burundi?

«Dal ’73 a oggi si sono realizzati molti interventi:
scuole, ospedali, magazzini, sorgenti d’acqua, centri di formazione. Ma la cosa
importante è che la maggior parte di queste infrastrutture e servizi continuano
a funzionare bene, mostrandosi sostenibili nel tempo, e con una gestione
totalmente locale. Un po’ meno soddisfacente il lavoro per promuovere la
federazione delle cornoperative, proprio per la cultura individualista cui
accennavamo prima. In generale, si è rivelata vincente la strategia di
lavorare con le istituzioni e le cornoperative locali favorendo i processi nati
dalla base, senza imporre nulla dall’alto. Poi, come sempre, molto dipende
dall’impegno delle persone e delle istituzioni nel continuare e valorizzare ciò
che è stato messo a loro disposizione».

Quali sono le vostre prospettive per il futuro?

«Continuare a lavorare nel settore agricolo, promuovendo
la sovranità alimentare e migliorando l’organizzazione dei contadini. L’idea è
di focalizzarsi sulla produzione locale (riso, patate, mais) e di sostenere il
ruolo produttivo e commerciale delle donne, che sono pilastri della società e
dell’economia burundese. Da sempre puntiamo a realizzare progetti pilota,
visibili e facilmente replicabili, che possano servire da modello anche per
altri. E sempre più ci stiamo dedicando alle tematiche dei diritti umani e
della partecipazione democratica».

Stefania
Garini

Per sapee di più:

www.cisvto.org
http://cisvto.wordpress.com (racconti dei volontari)
http://www.flickr.com/photos/cisvto (album fotografico)



Stefania Garini

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