Piccolo popolo, tanti primati

Samariani: pochi, ma «buoni»

Fenomeno più unico che raro, i Samaritani sono sopravvissuti come entità etnica e religiosa a difficoltà e persecuzioni secolari; il loro numero può apparire insignificante; le loro tradizioni sembrano più attrazioni turistiche che espressioni di fede; eppure hanno una forte ambizione: fare da ponte nel conflitto israelo-palestinese… Anche perché, per sopravvivere, hanno bisogno di pace soprattutto.

«Siamo la più antica e la più piccola nazione e setta religiosa del mondo. Per questi e altri primati potremmo entrare in molte pagine del Guinnes of Records – esordisce Husney W. Kohen, fondatore e direttore del Museo dei Samaritani a Kiryat Luza, villaggio sulla dorsale del monte Garizim -. Tre mila anni fa i Samaritani erano 3 milioni; nel medioevo erano un milione e 200 mila; nel 1917 contavano appena 146 persone. Oggi sono 729 (1° gennaio 2010); metà vivono sul monte Garizim, il resto a Holon presso Tel Aviv».
Elegante nella sua lunga veste grigia, 66 anni, Husney Kohen si presenta come uno dei 12 sacerdoti custodi della fede dei Samaritani e, sottolineando il suo lignaggio, spiega l’albero genealogico: «Da Adamo a me ci sono 162 generazioni; da Aronne, fratello di Mosè, 132 generazioni».
LE ORIGINI
«Abbiamo anche il calendario più antico del mondo – continua Kohen mostrando un almanacco con le cifre 3647-3648 -. Questi sono gli anni trascorsi da quando gli ebrei passarono il Giordano, entrarono nella terra di Canaan e rinnovarono l’alleanza qui a Sichem (oggi Nablus), secondo il comando di Mosè:  “Quando il Signore tuo Dio ti avrà condotto nella terra che vai a conquistare, tu porrai la benedizione sul monte Garizim e la maledizione sul monte Ebal” (Deut 11,29)».
E così avvenne, come si legge nel libro di Giosuè: tutte le tribù schierate attorno all’arca dell’alleanza, metà voltate verso il monte Garizim pronunciarono le benedizioni per gli osservanti della legge; metà rivolte al monte Ebal lanciarono le maledizioni contro i trasgressori (Cf Gios 8,33).
Nella regione che prenderà il nome di Samaria rimasero i discendenti di Efraim e Manasse, figli di Giuseppe, e alcuni della tribù di Levi, mentre le altre continuarono la conquista del territorio sotto la guida dei giudici e poi della monarchia. Per 270 anni esse condivisero la stessa storia; seguirono due secoli di storia parallela, in seguito alla divisione (930 a.C.) tra regno di Giuda al sud, con capitale Gerusalemme, e regno d’Israele al nord, con capitale Sichem e poi Samaria.
La separazione politica divenne anche divisione religiosa, a partire dal 722 a.C., quando il regno del nord fu distrutto dagli Assiri e una parte della popolazione (27.290 secondo gli annali dei vincitori) fu deportata e sostituita con coloni della Mesopotamia, provenienti soprattutto da Cutha, che si mischiarono ai 60 mila israeliti rimasti sul luogo. La mescolanza etnica e culturale, con relativo sincretismo religioso, provocò il rigetto da parte dei giudei del sud verso i Samaritani, chiamati con disprezzo «cutheani», cioè gente di sangue misto e semi-pagana.
In realtà, i Samaritani continuarono a ritenersi parte del popolo ebraico e nel 538 a.C., quando i giudei esiliati a Babilonia tornarono a Gerusalemme, i Samaritani offrirono il loro aiuto per ricostruire il tempio e officiarlo insieme, ma furono respinti brutalmente, perché considerati razzialmente impuri. Per questo, nel IV secolo a.C., i Samaritani costruirono il proprio tempio sul monte Garizim, il luogo in cui, secondo il loro credo, erano avvenuti diversi eventi significativi della storia dei patriarchi e del popolo israelitico. Si consumava così lo scisma tra le due popolazioni.
Non passarono due secoli e il tempio fu raso al suolo, nel 128 a.C., dal re di Giuda, Giovanni Ircano, nel tentativo di sottomettere i Samaritani alla tradizione gerosolimitana, portando al culmine, invece, l’incomunicabilità, l’ostilità e l’odio tra giudei e samaritani. E questo era il clima che si respirava al tempo di Gesù (vedi riquadro).
Nei secoli seguenti, con il susseguirsi nella terra santa di varie dominazioni  – romana, bizantina, islamica, turca – i Samaritani sperimentarono momenti di pace alternati a periodi di oppressione e persecuzione, in cui essi furono costretti alla conversione o alla diaspora. Così il loro numero si assottigliava costantemente, fino a raggiungere il minimo storico di 146 persone, grazie anche a una tremenda epidemia scoppiata a Nablus alla fine della guerra mondiale, quando i turchi lasciarono la Palestina.
IDENTITÀ
«Da oltre tre millenni abitiamo in questo luogo; siamo il resto dell’antico regno d’Israele, ci riteniamo e definiamo Bene-Yisrael, figli d’Israele. Siamo i veri israeliti» afferma Husney Kohen in polemica con una corrente storiografica che definisce i Samaritani una setta staccatasi dal giudaismo nel periodo del 2° tempio (538 a.C.-70 d.C.), e continua: «Contrariamente a quanto capita per la maggior parte dei popoli, non è la Samaria a dare il nome ai suoi abitanti, ma il contrario: il termine samaritani deriva infatti dall’ebraico “shamerim”, che significa “custodi, osservanti” dell’insegnamento di Mosè».
Mentre parla, Kohen si avvicina a una parete ricoperta da un drappo rosso con scritte ricamate in oro; rimuove un velo rosso e apre un rotolo di pergamena avvolto in un panno di seta verde, ugualmente ricoperto da una fitta scrittura ricamata in oro. Poi continua, sciorinando altri primati: «Questo è il più antico libro del mondo, il Pentateuco, i cinque libri della Torah, l’unica nostra legge, tramandataci da Mosè. Questo codice è di 150 anni fa, ma ne abbiamo un altro che risale a sei secoli fa, ma non viene mostrato al pubblico; già una volta hanno tentato di rubarlo, quando era nella sinagoga di Nablus. Molti musei vorrebbero comperarlo; il British Museum ha offerto una grossissima somma solo per custodirlo ed esporlo al pubblico, ma non possiamo privarci del nostro tesoro più prezioso».
Oltre al contenuto, la preziosità del codice sta nella sua rarità: è scritto in ebraico antico, con un alfabeto precedente a quello attuale a lettere quadrate, adottato dagli ebrei dopo l’esilio sotto l’influsso della scrittura babilonese. «L’ebraico antico è la madre di tutte le lingue del mondo» continua Kohen, indicando una riproduzione delle lettere dell’alfabeto e spiegando come ognuna di esse corrisponda a un membro del corpo umano.
Il Pentateuco samaritano, la cui redazione è attribuita dalla tradizione ad Abisha, pronipote di Mosè, contiene oltre 7 mila differenze rispetto al testo ebraico masoretico. Per lo più sono diversità ortografiche, ma alcune anche di contenuto «teologico», come la questione del luogo della presenza di Dio. In 22 versetti del Deuteronomio, la versione samaritana usa il verbo al passato: «Nel luogo che l’Onnipotente ha scelto»; mentre la redazione masoretica usa il futuro: «Nel luogo che l’Onnipotente sceglierà» (Dt 16,11).
La differenza è cruciale: per i Samaritani tale scelta è avvenuta ancor prima dell’entrata nella terra promessa ed è il Garizim, unico monte della terra d’Israele espressamente consacrato nel Deuteronomio quale luogo delle benedizioni (Dt 11,29), luogo dove Abramo e Giacobbe hanno costruito altari. Per i giudei, invece, il verbo al futuro esprime solo l’annuncio della scelta, che si realizzerà al tempo di David e Salomone (1000-930 a.C.) e cadrà sul monte del tempio a Gerusalemme.
Un’altra differenza riguarda la redazione del decalogo (Es 20,1-14). Nel testo samaritano il primo comandamento è: «Non avrai altri dei…» (secondo nella versione masoretica); il decimo ordina di costruire un altare sul monte Garizim, comandamento assente nel testo masoretico.
Il luogo del culto è sempre stato il pomo della discordia, da quando Eli scippò al Garizim l’arca dell’alleanza e la trasportò a Silo, fino al tempo di Gesù, come appare dalla domanda della donna samaritana: «I nostri padri hanno adorato Dio sopra questo monte e voi dite che è Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare». E rimane tutt’ora la principale discriminante tra la fede dei Samaritani e quella degli Ebrei, come si apprende dalle labbra stesse di Kohen: «Inutile che certi Ebrei cerchino di ricostruire il terzo tempio a Gerusalemme, quando Dio ha scelto il Garizim».
CREDO E FESTE
«I Samaritani sono guidati da quattro principi di fede – continua -: un solo Dio, il Dio d’Israele; un solo profeta, Mosè figlio di Amran; un solo libro sacro, il Pentateuco, la Torah trasmessa da Mosè; un solo luogo sacro, il monte Garizim. Inoltre crediamo nella venuta del Taheb, “un profeta come Mosè” (cf Dt 18,15), un messia (cf Gv 4,25) della stirpe di Giuseppe e non di discendenza davidica, che verrà alla fine dei tempi, nel giorno della vendetta e della ricompensa».
Samaritani ed Ebrei hanno in comune la celebrazione di sette festività, quelle menzionate nel Pentateuco: la Pasqua con il suo sacrificio (vedi riquadro) per ricordare la liberazione dalla schiavitù in Egitto; la festa degli Azzimi, per sette giorni si mangia pane non lievitato; la festa delle Settimane (Shavuoth) o pentecoste; il primo giorno del Settimo Mese (Tishri), per ricordare l’entrata nella terra di Canaan; il Gioo dell’Espiazione (Yom Kippur); la festa delle Capanne (Sukkot), a ricordo delle abitazioni durante l’esodo, che si conclude con la festa della Gioia della Torah.
«In conseguenza della persecuzione islamica dei secoli passati – continua Kohen mentre mostra un grande plastico di frutta multicolore – i Samaritani costruiscono il sukkot in casa e non all’aperto come gli Ebrei. Comperiamo 3-400 chili di frutta della terra santa, la leghiamo a un graticcio di acciaio formando disegni fantasiosi e lo appendiamo al soffitto della stanza principale; l’ottavo giorno, la frutta è ridotta in succo per la delizia dei più piccoli, e non solo, per festeggiare la dolcezza della Torah».
Altri doveri del «buon samaritano» sono: vivere in terra d’Israele o almeno mantenervi la residenza; celebrare la pasqua sul monte Garizim; fare il pellegrinaggio al monte sacro tre volte l’anno (ultimo giorno degli Azimi, Pentecoste; primo giorno del Sukkot); osservare scrupolosamente le leggi della purità alimentare e del sabato. «In tale giorno – continua Kohen – non solo non facciamo alcun lavoro, ma non usiamo l’elettricità né rispondiamo al telefono, non usciamo di casa se non per andare a pregare nella sinagoga; tornati a casa leggiamo un capitolo della Torah».
PROBLEMI E LAMENTELE
«Siamo la popolazione più giovane al mondo – continua Kohen con un altro primato – ma abbiamo un grave problema: da oltre due secoli soffriamo la scarsità di spose, per cui i nostri uomini cercano donne di altre religioni. Attualmente un’ebrea, 5 cristiane provenienti da Russia e Ucraina, 3 musulmane da Turchia e Azerbaigian sono sposate con uomini samaritani di Kiryat Luza. Prima, però, sono state sottoposte a un periodo di prova, si sono convertite alla nostra religione e impegnate a osservarla».
Sono curioso di sapere come vengono combinati tali matrimoni. «Usiamo anche noi internet e facebook – risponde sorridendo -. Siamo molto religiosi, ma aperti al mondo moderno. I miei figli, due maschi e tre femmine, hanno studiato all’università: una giornalismo, un’altra economia e commercio, la terza informatica; un figlio gioca a pallacanestro».
Contro la sopravvivenza dei Samaritani congiurano anche altri problemi economici e sanitari. «La nostra gente ha spesso mal di testa» lamenta Husney Kohen. La causa è attribuita alle radiazioni elettromagnetiche emanate da 7 torri di comunicazione, costruite e gestite dal governo israeliano attorno al villaggio».
Da più di tre anni i Samaritani sopportano l’embargo al loro rinomato tahinia (crema di sesamo). «Il migliore al mondo» afferma Kohen. Israele ne impedisce l’esportazione per motivi di sicurezza, dicono; in pratica priva del lavoro una decina di famiglie».
Ma il problema più grave per il futuro dei Samaritani viene dalla situazione di guerra israelo-palestinese. I musulmani li considerano ebrei; gli ebrei li ritengono arabi; per questo si sentono spesso «tra l’incudine e il martello» e in passato hanno subito angherie da ambo le parti.
«Come abitanti di Kiryat Luza abbiamo la cittadinanza palestinese – spiega Kohen -; nella vita quotidiana parliamo l’arabo, ma il sabato e nelle feste usiamo l’antico ebraico e lo insegniamo ai nostri figli a scuola. In quanto credenti della Torah, abbiamo ricevuto la cittadinanza israeliana, come quelli della comunità di Holon, in territorio israeliano. Non siamo schierati da nessuna delle due parti. Anzi, molti di noi hanno la carta di identità palestinese, il passaporto israeliano e quello giordano, dato che fino al 1967 eravamo sotto il re della Giordania».
Con tale neutralità i Samaritani si propongono come intermediari tra Israele e Palestina; l’irrilevanza numerica favorisce la credibilità della loro mediazione, dal momento che non rivendicano alcun privilegio territoriale, ma solo la libertà di vivere secondo le proprie tradizioni. «Israeliani e palestinesi devono imparare dai Samaritani – conclude Kohen -. Anche noi vogliamo essere motivo di pace tra i due popoli. Senza pace sono a rischio Samaritani, Palestinesi e Israeliani. La guerra non serve a nessuno. Ma non può esserci pace senza riconoscere ai Palestinesi il diritto alla propria patria. Per questo noi lavoriamo e preghiamo. E anche ora prego Dio perché ci conceda la pace».
Che Dio lo ascolti.

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi