Teologia Macua: Dio è donna

L’utopia di un grande missionario

In un villaggio del profondo Niassa un’équipe di religiosi e laici porta avanti una missione di frontiera. Italiani e africani, uomini e donne. Ma soprattutto incontro tra tradizione biblico-cristiana e teologia tradizionale macua. Come coniugare le diverse categorie? Come arricchirsi gli uni con gli altri nella propria fede? Lavorare per l’inclusione, contro l’esclusione. Farsi evangelizzare evangelizzando. Un laboratorio umano e spirituale che dura da 30 anni. Ma è sempre all’avanguardia.

Maúa (Niassa). Occorrono circa sei ore per arrivare a Maúa partendo da Lichinga, capitale del Niassa e unico aeroporto della vasta provincia nel Nord del Mozambico. Dopo 200 km di strada asfaltata se ne percorrono ancora oltre un centinaio di sterrata, di cui buona parte in una foresta vergine, incontaminata, interrotta ogni tanto da una montagna di roccia, come un sasso gigantesco e lucido che sorge dal nulla. Panorama spettacolare.
A Maúa non c’è la luce elettrica e non arrivano neppure le onde elettromagnetiche del telefono cellulare …
Qui un’équipe di missionari della Consolata ha fondato il «Centro de investigaçao macua-xirima» (centro culturale o di studio) allo scopo di entrare nel mondo xirima (o sirima) e stabilire con esso, uno «scambio di doni». L’etnia macua (pronuncia macùa) è la più numerosa in Mozambico (circa 47% della popolazione) ed è presente in quattro province: oltre il Niassa, Cabo Delgado, Nampula e Zambésia. Fa parte della famiglia bantu, ed è a sua volta divisa in vari sottogruppi linguistici, tra cui il xirima.
La casa dei religiosi e i locali del centro sono una struttura semplice, integrata con il resto delle costruzioni della cittadina.
Padre Giuseppe Frizzi* è in Mozambico dal 1975. È un biblista (laureato all’università di Münster, in Germania) che si è messo a fare l’antropologo. Ma è soprattutto un missionario, come lui stesso sostiene, che persegue la strada per fare il missionario nel modo che gli sembra più giusto nel contesto in cui si trova.
Quando si sta con lui si percepisce quel qualcosa che ti dice di essere al cospetto di un grande. Gigante anche in semplicità. Timido, quasi dimesso, difende con fermezza, ma senza alcuna arroganza, le sue idee. Convinzioni elaborate e maturate su una solida base: un lavoro di oltre 30 anni. Idee spesso osteggiate, dentro e fuori della chiesa. Con tutta probabilità perché sono molto avanzate rispetto al pensare comune.
Con lui lavorano suor Silveria Casiraghi, missionaria della Consolata inossidabile, il sempre allegro fratel Gerardo Secondino e il giovane patre venezuelano Leonel Toledo, insieme a un’équipe di laici macua.

Un metodo lungo  e partecipativo

«La lingua macua-xirima era una tradizione totalmente orale, la tramandavano gli anziani, la sera intorno al fuoco. Poi i missionari della Consolata hanno cominciato a scrivere qualcosa – racconta suor Silveria. – Quando padre Frizzi è arrivato ha ripreso in mano quanto era già stato fatto, poi ha iniziato a incaricare delle persone e, fuori, nelle grandi comunità, si sono formati dei gruppi».
«Ho iniziato a fare questo lavoro verso il 1980. A causa della guerriglia (sulla situazione politica cfr. MC gennaio 2009) non potevamo uscire, così gli animatori venivano a portarmi informazioni. Non solo relative alla pastorale ma anche alla cultura. Ero a Cuamba, fu un periodo di sei anni. Raccoglievo materiale tradizionale, canti religiosi. Abbiamo pubblicato un libro di 741 canti. Erano già presenti ma bisognava sistematizzarli in un contesto liturgico sacramentale». Così padre Frizzi ci racconta i primi anni del suo lavoro con i macua.
«Poi ho potuto frequentare i riti, soprattutto quelli terapeutici. Riti molto lunghi.
Un aspetto è la conoscenza dell’erbario, ma è il rito stesso che indica le medicine da trovare. Non c’è una cura prefabbricata. Nel rito, ammalato, famiglia, medico sono ispirati da fattori o sogni».
Nel 1987 Frizzi si trasferisce a Maúa e costituisce un gruppo di collaboratori: sono animatori e catechisti, che vivono nelle comunità. Partecipano a riti, si fanno raccontare proverbi. Scrivono tutto su dei quadeetti. Poi portano il materiale al centro, lo trascrivono nel computer. Incontriamo Ruffino che legge su un quaderno appunti in xirima, e Fausto che ascolta e scrive tutto su un computer portatile (alimentato con il solare), rigorosamente in xirima.
Poi improvvisano una traduzione grezza in portoghese. Il padre rivede tutti i testi nelle due lingue: «In seguito discutiamo, chiamiamo chi ha fatto il rito descritto per chiedere dettagli. Si fa una riflessione e si amplia il testo. C’è un dialogo intenso di équipe».
Dopo anni la metodologia si è raffinata. «In un mese ogni collaboratore porta un mezzo quaderno zeppo. È nata così la lingua scritta – continua suor Silveria -. Padre Frizzi ha già trovato la grammatica, l’ha perfezionata, l’ha completata. Siccome è una lingua bantu l’ha arricchita. I proverbi, le favole, la vera sapienza la raccoglie così, dalle persone stesse».
In questo modo ha tradotto l’intera bibbia, pubblicato il catechismo, libri di canti e di proverbi, scritto il dizionario completo. Nel 2008 nasce la sintesi del lavoro di questi anni: «Biosofia e biosfera Xirima». È un librone di 1.785 pagine, bilingue portoghese e macua.
Vuole essere la «visione sistematica della cultura xirima».  «Abbiamo voluto inserire il vocabolo nel suo contesto sia linguistico sia culturale. È il tentativo di presentare il mondo macua nella sua completezza: quello che amo chiamare il palazzo» continua padre Frizzi.

Un «edificio» complesso

I missionari e i laici macua hanno raccolto elementi della cultura in tutti questi anni, preparando i mattoni. Hanno poi cercato di sistematizzarli e completarli, costruendo dei muri. Ora si è arrivati all’edificio: la descrizione di una cultura complessa.
Come è stato possibile questo enorme lavoro?
«Uno degli ingredienti è la stabilità. Questa non è sinonimo di staticità, anche se può diventare comodità. Ma dà la possibilità di attingere, penetrare nel cuore di un popolo e quindi conoscere le radici. Essere ammessi in questo mondo non è facile, occorrono anni di amicizie. Vogliono sapere se tu entri per curiosare e poi sparlare o se c’è una empatia: tu vuoi entrare per partecipare, fare tua questa esperienza».
Tutto questo portando avanti anche la pastorale?
«La pastorale è sempre stata la base. Dà le fonti migliori e il materiale più autentico. Solo in seguito si può passare a una rielaborazione teoretica di un’esperienza. Non il contrario.
La pastorale concreta è sempre stata l’ispirazione. Dopo c’è la riflessione di équipe e si passa di nuovo alla pastorale come apertura, inculturazione, applicazione, suggerimenti … questo è il processo».
Come si arriva alla vera inculturazione?
«L’inculturazione è possibile se si ha il numero del cellulare di un popolo. Il punto di partenza è che Dio ha parlato a questa gente. La parola Muluko (Dio) non è importata, né dall’islam né dal cristianesimo. È la “casa dell’essere”,  indica un cammino storico che non è conosciuto. Dio ha camminato con questo popolo.
La messe è grande ma gli operai sono pochi. Se c’è la messe esiste un cammino già fatto. Il missionario più che seminare dovrebbe essere un mietitore: raccoglie o riassume coscientemente quello che Dio ha già operato con loro.
La visione teologica di Dio già nella storia prima dell’evangelizzazione, aiuta a entrare in un contesto culturale differente. Prima di tutto con rispetto: non seminare se è già stato seminato o non estirpare quello che già c’è e ha già un processo di maturità teologica storico-salvifica.
Il processo non è traumatico: se scopro la mateità di Dio in questo popolo (vedi oltre, ndr) non posso considerarla una deviazione o una perversione religiosa o teologica. Ma è un interrogativo potente alla mia fede impostata sul modello biblico-occidentale di tipo patriarcale. C’è un’alternativa di modelli che si possono coniugare insieme. Invece di escludersi come spesso avviene nella nostra società.
Inculturazione oltre a essere un interrogativo, è uno scambio di doni, ovvero la possibilità di allargare i propri orizzonti.
“Essere evangelizzati prima di evangelizzare”. Evangelizzati da quell’evangelio pre-evangelico. C’è già una presenza di Dio. Questa presenza è un imperativo categorico, che il missionario deve scoprire e rispettare, entrando così lui stesso in un processo di evangelizzazione che porta alla pienezza».
Padre Frizzi evangelizzato dal popolo macua.

Tutto parte dalla lingua

La lingua matea è la prima chiave di accesso a una cultura. Proprio per questo padre Frizzi e la sua équipe hanno basato tutto sul macua-xirima. E dopo tanti anni anche il governo del Mozambico ha capito che occorre valorizzare le lingue matee e nel 2004 ha fatto un passo importante introducendole nei primi tre anni di scuola primaria. Il 2008 è stato dichiarato «L’anno delle lingue matee».
A lato pratico vuol dire che c’è bisogno di insegnanti e operatori formati nelle diverse lingue presenti nel paese. L’Università cattolica del Mozambico, Facoltà di Educazione, a partire da quest’anno, introdurrà un corso di etnologia e antropologia in stretta collaborazione con il centro di investigazione di Maúa. E anche l’Università Eduardo Mondlane (la statale più grande del Mozambico) ha chiesto di collaborare.
Perché la lingua matea è così importante?
«Fino ad oggi a scuola c’è un trauma iniziale, dovuto alla lingua, alla cultura matea che si deve lasciare. Si esige un salto epocale a un bambino. La capacità creativa dei bambini è calata. Adesso governo, scuola e università chiedono materiale e appoggio da parte nostra. Non si tratta di rinchiudersi in un contesto etnico, ma valorizzare queste radici per poi lanciare il futuro adulto nel mondo.
Se il ragazzo entra nella scuola portando tutto il suo capitale culturale, domani i rami saranno autentici, i frutti non saranno rachitici se le radici sono salde.
Non capisco il boicottaggio di alcuni missionari o della chiesa che gridano a un ritorno al passato: si tratta di percepire la tradizione, valorizzarla e inserirla in un contesto nazionale.
Parlando solo portoghese si dimentica tutto il cammino che Dio ha fatto con questo popolo. Si suppone, con tutti i preconcetti e le conseguenze negative».
Questo vale per tutta l’Africa dove c’è una lingua franca, dei colonizzatori e una lingua matea.
«L’una non esclude l’altra, ma si implicano completandosi. La lingua franca necessita della lingua matea, delle sue radici, della sua località e individualità per vivere e sopravvivere, così pure la lingua matea necessita della franca per dilatare i suoi orizzonti culturali».

Il dio materno

La società macua, pur essendo bantu, è matriarcale e matrilineare. Il primo passo per entrare in contatto con essa è la conoscenza del mito delle origini, fondato sul monte Namuli, una montagna reale che si trova nel distretto Gurúé, in provincia di Zambésia.
«Il macua-xirima crede che tutto viene dal seno materno di Dio: Dio è la matriarca – genearca che dalle cavee del monte Namuli, ha generato tutto e tutti.  Tutto e tutti è là che devono ritornare. Non c’è in pratica un taglio ombelicale, ma un ciclo: tutto esce da Dio per poi ritornare al suo seno matriarcale» scrive padre Frizzi.
Adriano Saide, catechista e formatore al Centro culturale ci racconta: «Noi tutti macua siamo originati dal monte Namuli, è la nostra madre. Nella grotta al suo interno appaiono figure simboliche. Una figura di donna: vuol dire che è una madre e noi abbiamo fiducia in essa, perché è un’immagine che dà la vita: è quella che può avere un figlio e lo sa far crescere: per noi è uno spirito.
Il monte è sacro. Quando le persone muoiono, ritornano attraverso il monte Namuli».
Oltre a Muluko, il Dio matriarca, quale posto ha Gesù Cristo nella cultura macua-xirima?
«In una famiglia nascono figli, se si ammalano viene avvisato lo zio materno. È lui che decide tutto quello che concee i nipoti, figli della sorella. È una caratteristica di questa società matriarcale. Ecco che Gesù è “lo zio materno”,  atata, una figura fondamentale. Inoltre Gesù è mediatore: da lui passano tutte le tribolazioni dell’umanità. E Gesù le assume e le risolve.  “Yesu atatani namuku”, ovvero: Gesù mediatore e medico.
La Madonna è diventata puiyamuene, la matriarca. Entra immediatamente nel contesto culturale dei macua.
È proprio questa l’inculturazione: registrare un processo teologico emergente. Si favorisce la spontaneità di questa cultura, senza pensare che sia tutto negativo o creando barriere, ma dando al cristiano la possibilità di esprimersi spontaneamente nelle sue categorie. Da qui escono queste nuove sintesi teologiche. Possono anche essere soluzioni limitate, però accompagnare il processo e favorirlo, stimolarlo dovrebbe essere l’attività principale del missionario».

Riti di Iniziazione

Un rito fondamentale è quello dell’iniziazione, che esiste sia per le donne sia per gli uomini. Come è entrato il cristianesimo in questo?
«Un tempo era totalmente tradizionale. Poi essi stessi iniziarono a togliere qualche elemento che sembrava non più efficace nel contesto politico, sociale o cristiano.
Poi hanno creato una “commissione d’iniziazione” formata da catechisti e animatori, che hanno dato la responsabilità del viaggio (perché di viaggio si tratta) alla parrocchia. Il capo (regolo) è sempre presente e svolge il suo ruolo.
La parrocchia garantisce una forza morale per evitare gli abusi. La libertà liminare tipica dell’iniziazione c’è. Ma ci possono essere esagerazioni.
Lo scopo del viaggio iniziatico è allargare gli orizzonti, non solo promuovere il ragazzo o ragazza alla maturità matrimoniale, ma anche civile e inserirlo in un contesto allargato. Il Mozambico non è solo Maúa. C’è una settimana di formazione in cui si parla anche del nuovo contesto politico, della nazione, che va al di là dell’etnia macua. Lingua, salute, igiene, aids, lavoro e anche catechismo, liturgia, sono tutti temi affrontati».
Lei ha scritto che la società xirima non è sessista, e che non ha bisogno di scoprire il pianeta donna.
«Il centro è la donna, che ha in mano la vita. L’iniziazione è un’orchestrazione di questo tema: garantire vita e abbondanza di vita il più possibile.
L’uomo è il complemento di una società matriarcale: deve fecondare, lavorare, nutrire, vestire e soprattutto occuparsi della morte. Deve essere capace di seppellire: se c’è l’elemento negativo nella società deve garantire che la vitalità sia preservata.
Il rito iniziatico dei ragazzi finisce con un rito di morte: come seppellire i parenti, come togliere tutte le negatività perché la vitalità che detiene la donna sia feconda.
L’uomo è un’appendice al servizio della donna, ovvero della vita. Il ragazzo è preparato alla polarità morte, mentre le ragazze alla polarità vita».

«Mangiare insieme»

Il rito della makeya è il rito cardinale della religiosità e teologia xirima. Recita il dizionario realizzato dal Centro studi di Maúa.
«Nella famiglia ci può essere una tristezza, un sogno negativo. La mamma fa la makeya alla porta della casa oppure ai piedi dell’albero sacro.
Gettando a terra la farina si invoca Dio (materno) Muluku tramite gli antenati famigliari, che sono i mediatori. Nella teologia xirima Dio non è il sole che elimina tutte le stelle: è la luna (matriarcato, lunare, notturno). Questo significa che accetta la mediazione, convive con le stelle, non è solitario ma è solidale. Quindi entra in relazione con la comunità attraverso i morti. Se l’uomo vuole chiedere a Dio un favore o ringraziarlo, passa attraverso questa mediazione.
Non è un sacrificio, non si santifica, si tratta di creare un convito: una stuoia dove ci si siede e si mangia. Adorare, sacrificare: queste sono categorie bibliche o cristiane. Presso i macua no. La categoria principale è “mangiare insieme”,  è una comunione che si mangia insieme. Potrebbe essere una rivalutazione profonda dell’eucarestia. Loro la desiderano e la distribuiscono, anche se non hanno sacerdoti. Il castigo peggiore che si può fare a una comunità è sospendere la distribuzione la domenica.
C’è l’offerta in Gesù Cristo: la tradizione biblica si esprime così. La tradizione macua è invece:  “mangiare insieme”».
Allora qual è il dialogo tra le due? «Questo è il processo che si deve promuovere. È qui la nuova azione missionaria, non più un annuncio che prescinde, ma assumersi le categorie e coniugarle insieme».
Completato questo enorme lavoro sulla Biosofia e Biosfera, cosa assorbe adesso le sue energie?
«Dobbiamo essere attenti per vedere che sintesi, che teologia sta sorgendo.
Sto registrando i canti nuovi scritti in questi 20 anni. Ci danno una radiografia della teologia emergente, latente. Adesso ci sono molti canti alla Trinità, che prima non esistevano. Come spiegarla ai macua? Vediamo che proposte ci sono da parte loro. La mariologia l’ho già rielaborata. Superare un po’  la visione del semina verbi: non raccogliere solo i mattoni, ma anche la parete, o magari il suo contesto di costruzione finale. Che sintesi teologica cristiana si può dedurre da questa cultura, accompagnando quello che loro stanno vivendo? E io che fede posso realizzare insieme a loro arricchendomi della loro fede? Evangelizzati ed evangelizzandi da entrambe le parti. Come scambiarci i doni a livello di fedi? Quali i punti forti della teologia emergente e come inserirli dove c’è più debolezza da parte nostra? È un po’ un’utopia, ma sempre in questo atteggiamento di ascolto». 

Di Marco Bello

Cuore Macua

Un proverbio macua dice: «Nonostante il cammino sia tortuoso, se il cuore lo desidera, arriverà alla meta». È la sintesi efficace di una ricerca che abbiamo appena concluso a Maúa, uno studio antropologico e psicologico del processo di evangelizzazione inculturata tra i macua-xirima. Il cuore è il protagonista principale dello studio nel senso che ne è l’oggetto e il soggetto. Ne è l’oggetto perché lo studio si rivolge soprattutto alla componente affettiva, del pathos della persona e del popolo, cercando di comprendere come questa componente viene coinvolta nel processo di evangelizzazione. E ne è pure soggetto, perché il viaggio in cui ci siamo inoltrati col popolo xirima non consiste in una mera speculazione accademica, bensì in un’esperienza di vita che coinvolge non solo il pensare e il fare, ma anche e fondamentalmente l’intuire e il sentire.

Le cure tradizionali
I processi terapeutici macua-xirima costituiscono occasioni particolari di reimmersione nelle tematiche iniziatiche, pertanto di approfondimento e consolidamento delle istanze educative basilari. La costruzione dell’edificio rituale terapeutico si svolge ancora attorno al principio namulico (il mito delle origini, vedi articolo, ndr), cantato, danzato, detto, visualizzato, drammatizzato. Il mito viene così non solo raccontato ma soprattutto rivissuto nel rito. Calato e incarnato nella situazione attuale del malato e dell’ambiente che lo circonda, ne diviene chiave interpretativa, iniettandovi speranza. Il malato si sente partecipe di una storia più grande, di una rete di relazioni di influenza reciproca, che sostengono e illuminano il cammino individuale e comunitario salvandolo dall’anonimato e insieme inserendolo in una epopea comune che trascende il tempo, il luogo e le condizioni particolari senza svalutare gli elementi contingenti, anzi, conferendo loro un significato sacro.
Una caratteristica delle cure tradizionali xirima è di tener conto in ogni momento della molteplicità e dell’unità che caratterizzano l’esistenza umana: la terapia non riguarda un organo malato ma la persona tutta nelle sue componenti antropologiche, nel suo pensare, sentire e agire, nei suoi aspetti più consci e meno consci, nelle sue relazioni col mondo visibile e invisibile. Riguarda il gruppo di appartenenza, perché la malattia di un individuo non si risolve in un fatto privato, ma ha legami causali con la comunità. In questo senso, la terapia xirima è personale e allo stesso tempo sociale e cosmica; è medica e allo stesso tempo psicologica e religiosa; è cura e allo stesso tempo è educazione e preghiera. 

Il cuore
Per il xirima, il cuore (murima) non indica semplicemente un organo. Il murima è considerato il centro della personalità, sede dei desideri, degli affetti, delle decisioni. La tradizione xirima abbonda di testi sul murima considerato in questa accezione più ampia di coscienza individuale. I molti proverbi ci illuminano sull’importanza del murima nell’antropologia macua-xirima (vedi box).
Il xirima è consapevole che il cuore merita molta attenzione nei processi educativi: educare a pensare e ad agire non basta, perché «il pensiero non supera il cuore» ed è il cuore a «comandare», a «compiere il bene», a «contenere molte cose», a conferire alla persona la tenacia per arrivare là dove desidera, ad amare, oppure a cambiare direzione secondo i venti, a ritirarsi pieno di vergogna, a pietrificarsi in una avarizia che somiglia alla morte. Educare se stessi, allora, significa saper «ingannare» il proprio cuore, orientarlo, senza mai spegnee i desideri. Significa renderlo flessibile, duttile e capace di adattarsi, come quello di Dio che sa «cambiare colore» a guisa del camaleonte. Il cuore non si compra, non ha prezzo; il cuore buono viene paragonato poeticamente a una luna interiore, con tutta la carica simbolica, femminile e matea, che la luna riveste nel mondo xirima. A ragione, allora, la sapienza xirima incoraggia a guardare non tanto al volto (bello o meno) dell’altro, ma al suo cuore, a quella dimensione interiore che lo rende pienamente persona: in verità, la persona è il suo cuore.

L’ombra
La persona è costituita da tre componenti: corpo (erutthu), ombra (eruku) e spirito (munepa). Il corpo è assieme all’ombra, mentre la persona è viva. Quando la persona muore, la sua ombra è con il suo spirito. La componente dell’ombra si rivela come quell’elemento di unione tra corpo e spirito, quella dimensione intermedia, fluida, mobilissima della persona, capace di armonizzare le altre due componenti, integrandole e orientando le energie dell’essere alla missione che gli è stata affidata. In questo senso, l’eruku rappresenta la parte più forte ma anche più vulnerabile della persona. Un eruku positivo e vitale si traduce in una persona che fa e promuove il bene in sé e attorno a sé. Un eruku indebolito è alla radice di molti problemi personali, tra cui gli stati depressivi, e di molte difficoltà interpersonali. Di fatto, l’attività del terapeuta tradizionale macua è prevalentemente rivolta alla fortificazione e rivitalizzazione dell’eruku, così come l’attività dello stregone è rivolta alla mortificazione, all’indebolimento quando non addirittura alla sottrazione di questo elemento vitale.
L’eruku xirima entra facilmente in dialogo con ciò che da altre parti del mondo si chiamerebbe pathos, sfera emotiva, subconscio. Le porte della sapienza macua sembrano davvero aperte al dialogo con altre sapienze. L’esperienza macua è particolarmente recettiva alla questione dell’educazione olistica della persona e a un’educazione che abbia il dovuto riguardo alla componente del sentire. Si aprono delle piste di dialogo interdisciplinare sull’evangelizzazione.
L’attenzione alle «cose del cuore» è almeno tanto importante quanto l’attenzione alle «cose dello spirito» o a quelle della mente e del corpo. E questo vale per l’individuo come per la cultura.

Simona Brambilla
(missionaria della Consolata, dopo alcuni anni
di permanenza a Maúa ha scritto una tesi di dottorato in psicologia sull’argomento, di prossima pubblicazione)

Marco Bello