I diversi volti della malaria


Seconda classificata del «premio Carlo Urbani» racconta la sua esperienza in un ospedale di Brazzaville (Congo) e quella in Cina

 

Volevo scrivere una tesi di laurea che riguardasse la malaria. Ero già stata in Africa due volte, la prima come turista in Kenya e Tanzania, la seconda come studentessa di medicina in un dispensario «di brousse» della Repubblica Centroafricana. Ed ero sicura che ci sarei tornata. Per questo, tra tutti gli argomenti che il corso di laurea ci propone, io ero particolarmente affascinata dalla patologia tropicale. La prossima volta sarei tornata in Africa come medico, oltre che come amante di quella terra meravigliosa.
Era il 1998. L’Africa era per me una realtà appena sfiorata, un mondo pieno di fascino ancora tutto da scoprire; la malaria, una serie di nozioni apprese su libri e riviste. Ne avevo studiato l’epidemiologia, la patogenesi, le diverse forme cliniche, le terapie. Infine avevo raccolto la documentazione di tutti gli studi clinici di sperimentazione del vaccino SPf66 contro il Plasmodium falciparum, il più diffuso e pericoloso dei quattro plasmodi che causano la malaria; su queste esperienze cliniche avevo fatto uno studio di meta-analisi che era diventato la mia tesi.
A dire la verità non ne ero molto soddisfatta, forse perché era una cosa troppo astratta, troppo lontana dall’Africa che avevo conosciuto, o forse semplicemente perché la conclusione era che i risultati di questa sperimentazione erano molto deludenti. Dopo la laurea, durante un corso di Medicina tropicale in Belgio, ho imparato a riconoscere i plasmodi malarici al microscopio, su strisci di sangue periferico e su «goccia spessa», un metodo di concentrazione largamente utilizzato «sul campo» perché rende più veloce la diagnosi. I vetrini su cui studiavamo provenivano da diversi paesi dell’Africa, Asia e America Latina.
Dopo tanta teoria mi stavo progressivamente avvicinando al paziente, attraverso quei campioni di sangue in cui potevo osservare direttamente la presenza e le conseguenze dell’infezione malarica. Iniziata la scuola di specializzazione in Medicina tropicale in Italia, ho avuto l’occasione di assistere alcuni pazienti affetti da malaria, di ritorno da paesi endemici. Ma quando sono arrivata in Congo la malaria aveva tutta un’altra faccia.
L’occasione di un’esperienza lavorativa in un piccolo ospedale di Pointe Noire, sulla costa del Congo Brazzaville, mi si era presentata alla fine del terzo anno di specializzazione. Sono arrivata a Pointe Noire durante il caldo aprile congolese, alla fine della stagione delle piogge. Pointe Noire è una città petrolifera, eppure le uniche strade asfaltate sono quelle del centro, dove abitano i francesi e gli italiani che lavorano nelle società estrattive; tutte le altre strade della città sono sterrate e, in questa stagione, si trasformano in rivi d’acqua torbida dove giocano i bambini, dove passano e spesso rimangono impantanati i più svariati e sgangherati veicoli che attraversano la città.
È qui che la sera verso le sei e mezza, ora del crepuscolo equatoriale, si comincia a sentire il ronzio delle zanzare. Sono proprio le femmine delle zanzare anopheles i veicoli della malaria. Rapidamente popolano la notte e non è difficile per loro trovare un ospite, poiché la vita in Africa, si svolge prevalentemente all’aperto, anche di notte: le donne cucinano all’aperto, i bambini giocano all’aperto, gli anziani cantano e raccontano antiche storie all’aperto. Solo una piccola percentuale di famiglie possiede una zanzariera e un’ancor minore quota la impregna periodicamente d’insetticida al Cim (Centre d’imprégnation des moustiqueres) situato sull’Avenue du Général De Gaulle, la via principale della città. Così ogni notte il ciclo del parassita si perpetua. E sulle carte geografiche dell’Organizzazione mondiale della sanità, l’Africa si colora di un rosso sempre più scuro. Ricordo benissimo la prima volta che sono entrata nell’ospedale dove avrei lavorato i successivi due mesi; dando una rapida occhiata all’affollata sala d’attesa, ho capito in un attimo che avrei visto e imparato molte più cose di quelle scritte sui libri di medicina.
Uno dopo l’altro i pazienti si susseguivano nella spoglia stanzetta adibita ad ambulatorio, dove un vecchio ventilatore, nei fortunati giorni in cui c’era energia elettrica, muoveva un’aria pesante e umida. La maggior parte dei pazienti si presentava per febbre, diarrea, marcata astenia, cefalea: tutti sintomi che possono essere espressione d’infezione malarica, così come di un’infinità di altre patologie.

In un’area a così alta endemia il quadro clinico della malaria è estremamente aspecifico. Fortunatamente però la diagnosi microscopica è semplice e poco costosa: bastano pochi coloranti e un qualsiasi microscopio ottico. Quando manca la corrente si può usare una torcia a pile oppure, se manca anche quella, uno specchietto che sfrutti la luce solare. Altre indagini non sarebbero effettuabili e d’altronde non sono neanche necessarie. Perché il trofozoita, la forma ematica del plasmodio, si vede facilmente: sta all’interno dei globuli rossi dei quali provoca la lisi, le alterazioni di forma ed elasticità responsabili di tutta la sintomatologia sistemica. Così, data l’estrema diffusione dell’infezione e data la facilità diagnostica, a quasi tutti i pazienti che potevano permetterselo, veniva fatto un prelievo per la ricerca del plasmodio.
La percentuale di positività era impressionante: più del 90%. In tantissimi casi la carica parassitaria era molto elevata; in un campo microscopico era possibile vedere decine di trofozoiti, dando al vetrino l’aspetto che in gergo viene definito «a cielo stellato». E impressionante era il numero di bambini infetti: dai neonati avvolti in parei colorati, addormentati sulla schiena della madre, ai ragazzini più grandi, che venivano ad accompagnare uno sciame di fratelli e sorelle.
Ripensavo ai malati di malaria visti in Italia: turisti, uomini d’affari, missionari, navigatori, coppie di ritorno dal viaggio di nozze… erano figure ormai lontanissime nella mia mente. Adesso per me il volto della malaria era quello di un bambino o meglio di tanti bambini, dagli occhi scuri e sguardo serio e profondo, dai vestiti impolverati e la pelle madida di sudore per il caldo e la febbre. Non sempre erano sofferenti. Alcuni sembravano stare abbastanza bene, ma eseguito l’esame microscopico della goccia spessa, risultavano anch’essi parassitati, magari per la quarta/quinta volta in un anno.
Ricordo Espoir, una bambina di sei anni arrivata in ospedale con i suoi quattro fratelli; abitavano a Tché-Tché, un villaggio nella foresta proprio ai limiti della città. I fratelli avevano la febbre; uno, il più piccolo, non voleva più mangiare. Espoir invece stava bene ed era arrabbiata che l’avessero portata lì con gli altri, perché non voleva saltare la scuola e poi non voleva che le bucassero il dito per fare l’esame del sangue. Ma la loro madre voleva che tutti venissero controllati per il «palù», come chiamano loro la malaria. Delle cinque gocce spesse, quattro risultarono positive e quella di Espoir era quella con la carica più elevata: venticinque trofozoiti per campo microscopico. Il fratello minore, negativo per la malaria, risultò positivo alle indagini eseguite per la febbre tifoide.  
Altri invece arrivavano in condizioni gravi, privi di forze, alcuni in coma. Ricordo uno dei primi giorni di lavoro: ero rimasta sola, perché l’altro medico dell’ospedale era andato a lavorare due settimane sulla piattaforma dell’Agip, in mare al largo della costa di Pointe Noire. Una giovane madre in lacrime mi porta in braccio suo figlio, un bambino sui 10 anni, privo di conoscenza, con 40° di febbre, gravemente ipoteso, con le mucose congiuntivali bianche e vomito incoercibile. Non c’è tempo per alcun esame; bisogna metterlo subito sotto chinino e farmaci sintomatici, sperando che sia un attacco malarico.
Per la prima volta mi sono arrabbiata con gli infermieri, a causa della loro intrinseca flemma africana, che talvolta raggiunge livelli incredibili e che tanto contrasta con la nostra «frenesia bianca». Anche questo non è facile: trovarsi a lavorare con persone di altre culture, soprattutto così diverse, in un continuo confronto e scambio che, per quanto arricchente, in situazioni di stanchezza e di paura come quel giorno, può risultare davvero duro. Comunque alla fine riusciamo a stabilizzare Josh, il nostro piccolo paziente. La goccia spessa risulta positiva per più di 50 trofozoiti per campo; la glicemia non si può rilevare perché è finito il reattivo; l’emoglobina, calcolata con un metodo molto approssimativo, risulta di circa sei grammi/decilitro (in Italia noi trasfondiamo sotto gli otto grammi, qui trasfondono sotto quattro). La sera Josh è sveglio e io tiro un respiro di sollievo.

Per molti altri la malaria si sovrapponeva a uno stato di malnutrizione grave, infezioni gastrointestinali, anemie congenite come la drepanocitosi, sieropositività Hiv, andandone a peggiorare il quadro. Secondo la mia formazione «occidentale» non avrei avuto dubbi: tutti questi bambini avrebbero dovuto essere ricoverati, trattati, monitorati; si sarebbero dovute prevenire e curare le complicanze più pericolose quali anemia severa, ipoglicemia, insufficienza renale. Questo avevo studiato sui libri.
Ma qui la malaria è un’altra cosa. È proporre a un padre il ricovero del figlio e sentire il suo rifiuto per l’impossibilità di pagare. È ordinare una sacca di sangue e non vederla infondere perché costa troppo e poi si rischia l’Hiv e Hcv. È prescrivere un farmaco antimalarico e vedere comprare altri, al mercato, al banco vicino a quello della manioca, conservati a quaranta gradi e forse scaduti. È vedere un’infermiera che tra un tuo e l’altro si mette su, da sola, la sua flebo di chinino e, finita quella, riprende a lavorare: perdere un giorno di lavoro può voler dire perdere il lavoro.
Così l’altro volto della malaria, forse quello più vero, si mostra in tutta la sua durezza. E a me adesso non importa più niente del meccanismo d’azione dei farmaci, degli studi comparativi di efficacia e tollerabilità delle diverse terapie, del vaccino SPf66. Adesso vorrei solo poter pagare il ricovero di Michelle, le sacche di sangue di Josh, i farmaci di Emar, la giornata di lavoro di Augustine. Si perché adesso la malaria non è più un articolo di giornale né un vetrino brulicante di plasmodi, ma è una sala d’aspetto gremita di persone, ognuna con il suo nome e la sua storia, i suoi problemi ed esigenze. Ognuna con un immenso bisogno di essere ascoltata. Ognuna, almeno così credevo, con il diritto di essere curata. Fa parte della nostra cultura, nonostante tutti i suoi limiti: non possiamo accettare che una persona muoia perché non può pagare. Ma qui è così. È come se il costo di una malattia fosse un sintomo e in alcuni casi quel sintomo diventa il fattore prognostico determinante, diventa la complicanza più grave.

Così un giorno dopo l’altro trascorrono in un lampo i miei due mesi in Congo. Ormai è giugno e siamo nel pieno della stagione secca. Mentre preparo le valigie che, non si capisce perché, ma al ritorno non si riescono mai a chiudere, provo a riordinare dentro di me le immagini, le sensazioni, le esperienze di questo periodo. Ma è ancora troppo presto. Ci vorrà un po’ di tempo per assimilare tutto questo, per dare un ordine e un senso a ogni cosa vista e vissuta, probabilmente molto tempo. Per adesso mi rendo solo conto che porterò a casa molto più di due valigie.
Mi viene in mente la dedica che avevo scritto come introduzione alla mia tesi; era la citazione di una poesia di Montale e l’avevo scritta perché mi piaceva, ma senza darle un significato particolare: «… Sotto l’azzurro fitto del cielo qualche uccello di mare se ne va; né sosta mai perché tutte le immagini portano scritto: “più in là”». È come se la capissi soltanto ora.
Tornata in Italia, nel reparto di Malattie infettive dove ho terminato la specializzazione, ho ritrovato i «miei» pazienti, la maggioranza dei quali sono Hiv positivi.
Ora più di prima non posso fare a meno di porre attenzione al prezzo dei farmaci antiretrovirali, ogni volta che ne consegno una scatola. E penso che in Africa questa sarebbe una complicanza mortale. Guardo questi malati e provo a immaginare quale volto avreb­bero gli stessi pazienti laggiù, nel piccolo ospedale di Pointe Noire. Ma questo è un altro capitolo.

di Chiara Montaldo
 

Chiara Montaldo

 



Costruire insieme un futuro

Convegno della Fondazione Ivo de Caeri a Pemba

A Pavia, a partire dall’esperienza sanitaria della Fondazione de Caeri in Africa,
si è parlato di cooperazione, malattie dimenticate ed etica.

Sono passati 30 anni, ma la frase riportata nella Dichiarazione di Alma Ata, alla Conferenza internazionale sulle cure primarie del settembre 1978, non ha trovato la sua realizzazione. Era riportata la possibilità di un «livello di salute accettabile» per tutti, entro il 2000.
Il termine è passato, la Dichiarazione dopo 30 anni è ancora attuale. Salute di base, sistemi sanitari, interventi di cooperazione e loro sostenibilità, malattie dimenticate e popolazioni dimenticate sono temi che hanno animato una giornata di relazioni a Pavia, presso l’Almo collegio Borromeo. Il Convegno, «La Fondazione Ivo de Caeri a Pemba: un’esperienza sanitaria locale per un confronto globale», organizzato dal Collegio stesso e dalla Fondazione Ivo de Caeri di Milano, con il patrocinio della Fondazione Irccs Policlinico San Matteo di Pavia, si è svolto il 16 aprile scorso: a partire dal lavoro della Fondazione sull’isola di Pemba (arcipelago di Zanzibar, Tanzania), ha proposto un percorso di riflessioni sulla situazione sanitaria dei più poveri del mondo.

SULL’ISOLA DI PEMBA

«È tutt’ora prevedibile che molte parassitosi continueranno ancora per molti anni ad affliggere gli strati più poveri delle nostre popolazioni e intere nazioni in zona tropicale». Sono parole di Ivo de Caeri, professore di parassitologia all’Università degli studi di Pavia e consulente dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), dalla prefazione della prima edizione del suo testo sulle malattie parassitarie, anno 1961.
Le ha ricordate Alessandra Carozzi, presidente della Fondazione de Caeri (www.fondazionedecarneri.it), nata nel 1994 in memoria del parassitologo (scomparso l’anno prima), nella relazione sulle attività di cooperazione e formazione sanitaria e sostegno alla ricerca scientifica.
La missione della Fondazione («promozione dei piani di lotta alle malattie parassitarie nei paesi in via di sviluppo e incremento degli studi di parassitologia») ha portato a costruire un Laboratorio di sanità pubblica a Pemba, a sostenee strategie, attività e ad avviare interventi a fianco della popolazione locale, dal sostegno a un dispensario materno infantile al progetto di controllo delle malattie trasmesse dall’acqua, con la formazione di laboratorio e la riabilitazione della rete idrica, all’invio di chirurghi per il sostegno e la formazione di personale locale.
Il laboratorio si propone come esperienza di cooperazione nuova e per certi versi difficile. A otto anni dall’avvio delle attività, Marco Albonico, direttore scientifico della Fondazione e consulente dell’Oms, ha stimolato la riflessione sui punti di forza e i nodi da risolvere in un progetto di sostegno alla sanità pubblica e di un centro di esami di qualità. Il laboratorio sostiene le attività di salute pubblica del ministero della Sanità di Zanzibar: svolge attività di monitoraggio e valutazione dei programmi di controllo, esegue controlli di qualità per le diagnosi dei laboratori periferici, promuove la ricerca secondo le priorità locali, raccoglie e analizza i dati epidemiologici sociosanitari, è attivo nella sorveglianza delle epidemie e svolge attività di aggioamento e formazione.
Vi sono diversi aspetti positivi dell’esperienza. Vi è impiegato personale locale con un salario dignitoso e possibilità di formazione. Il profilo scientifico è alto e, ha raccontato Albonico, «i progetti hanno dato buoni risultati: studi scientifici, raccomandazioni per politiche sanitarie, pubblicazioni scientifiche»; nel corso degli anni è «sempre più un servizio trasversale che affronta molteplici problemi sanitari, col potenziale di migliorare il cornordinamento e la supervisione dei centri di salute periferici e degli ospedali».
Al tempo stesso, tuttavia, non è stata ancora raggiunta un’autonomia da parte del personale stesso, un senso di appartenenza che porti a costruire in modo autonomo possibilità di lavoro e di ricerca. Il laboratorio in questi anni è stato anche fonte di dibattito fra gli operatori della sanità locale e ha incontrato difficoltà nell’essere compreso dalla popolazione come elemento importante per la sanità. Il percorso non è dunque concluso, ma si hanno di fronte le sfide da cogliere, prima fra tutte la completa autonomia locale del progetto.

MALATTIE UNITE ALLA POVERTÀ

Quando Ivo de Caeri arrivò la prima volta a Pemba erano in atto ricerche sulla schistosomiasi, che fa parte del gruppo delle malattie tropicali dimenticate. Queste malattie, oggetto di una relazione al Convegno, hanno come denominatore comune la povertà, nella quale prosperano e che loro stesse alimentano, ostacolando l’istruzione, le possibilità di lavoro, diventando causa di emarginazione e isolamento per le lesioni e disabilità che provocano, ostacolando lo sviluppo economico.
Ne sono elencate indicativamente 14 dall’Oms (colera/malattie diarroiche, dengue/febbre emorragica di dengue, dracunculosi, elmintiasi, filariasi linfatica, lebbra, leishmaniosi, malattia di Chagas, oncocercosi, schistosomiasi, tracoma, treponematosi, tripanosomiasi umana africana, ulcera di Buruli), indicativamente perché la lista può comprenderne altre.
Nel mondo circa un miliardo di persone presenta una o più malattie dimenticate, presenti soprattutto in comunità povere e isolate; la maggior parte di queste malattie può essere prevenuta o eliminata. Rappresentano una minaccia per la salute locale, ma hanno poco peso politico, sono economicamente poco interessanti. Per alcune vi sono concrete possibilità di diagnosi e terapia, programmi di controllo su più malattie; per altre invece il percorso è più difficile, i farmaci sono vecchi, costosi o tossici. Molte sono trasmesse da vettori (insetti) e hanno collegamenti con l’ambiente; sono ben presenti in posti con acqua non sicura, condizioni igieniche sanitarie scadenti e accesso limitato a cure sanitarie di base.
Le strategie nei confronti delle malattie dimenticate seguite dall’Oms sono state oggetto della relazione di Albis Gabrielli, dell’Oms. Vengono distinte in due gruppi principali: le elmintiasi, causate da elminti (vermi), visibili a occhio nudo, e le protozoosi, causate da protozoi, non visibili a occhio nudo: «L’Oms è impegnata nell’elaborazione di strategie globali che siano adattabili ai paesi in cui queste malattie sono presenti, cioè per la massima parte del Sud del mondo. La strategia per le elmintiasi, chiamata chemioterapia preventiva, consiste nel trattare a intervalli regolari, con farmaci sicuri, efficaci e accessibili dal punto di vista del costo, interi gruppi di popolazioni che vivono in aree dove le malattie sono diffuse. La strategia contro le protozoosi prende invece il nome di approccio clinico intensificato. A causa di strumenti diagnostici e terapeutici vecchi e costosi, di difficile utilizzo e tossicità alta, non è possibile il trattamento di popolazioni, bensì individuale, a opera di personale specializzato, che deve agire con una strumentazione adeguata. La strategia si focalizza pertanto sul garantire un accesso al trattamento al numero più alto possibile di persone».
Ma uno degli aspetti critici della sanità nei paesi poveri è proprio la carenza di personale locale. Maurizio Bonati, dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano, ha tracciato un quadro del ridotto numero di operatori sanitari, a partire dall’esperienza personale, da un lato di cooperazione in paesi del Sudamerica, con interventi in villaggi sperduti ove si cerca di portare aiuto ma anche di formare personale che possa proseguire nel lavoro, dall’altro di formazione in Italia di persone che dovrebbero poi portare le proprie conoscenze a vantaggio del paese di origine. Dovrebbero, perché talora le condizioni locali non permettono l’utilizzo delle conoscenze acquisite o la persona stessa, una volta raggiunte capacità superiori, preferisce cercare lavoro in posizioni migliori all’estero.
Si aprono dunque spunti di riflessione sull’importanza non solo della formazione di personale nei paesi del Sud del mondo ma anche di condizioni locali di lavoro che ne favoriscano il ritorno o la permanenza.

LO SGUARDO DELL’ETICA

Cooperazione, malattie dimenticate, operatori sanitari, Sud del mondo. Nel filo conduttore del Convegno è stata data la voce all’etica della salute e degli interventi. Laura Palazzani, della Lumsa (Libera università Maria ss. Assunta) di Roma ha approfondito il tema della bioetica, a partire dai diversi tipi: etnocentrica, multietnica e interculturale; quest’ultima delineatasi in contrapposizione alle prime due: «La rilevanza della bioetica interculturale consiste nella ricerca critica di una continua mediazione e integrazione interculturale tra i diritti umani e le esigenze specifiche delle diverse culture, nel tentativo di evitare la prevaricazione, per affermare la logica relazionale della diversità nell’uguaglianza. In tal senso, il dialogo interculturale in bioetica non sarebbe né conflitto né accettazione passiva di un compromesso, ma piuttosto ricerca costruttiva di integrazione».
Una comprensione della bioetica interculturale come punto di partenza per ragionare sulla cooperazione sanitaria, l’equità sanitaria, la salute come diritto. Aspetti ripresi da Gaia Marsico, dell’Università di Padova (Bioetica-Scienze politiche), che ha parlato di accesso ai farmaci, ricerca nel Sud del mondo e ruolo della bioetica. Perché le domande sulla ricerca nei paesi poveri non possono prescindere dal chiedersi quali sono i bisogni reali e gli orientamenti della ricerca in generale: «Se vogliamo interrogarci sulle criticità e gli aspetti etici della ricerca nel Sud globale (non solo in senso geografico), dovremmo partire dal senso, dalla rilevanza e modalità della ricerca in generale; delle ricerche che promuoviamo e vediamo svilupparsi nei nostri paesi. Da chi è disegnato questo progresso, in funzione di chi lo si costruisce?».
Tanti interrogativi e questioni aperte. Mettersi in discussione di fronte alla sofferenza dimenticata di centinaia di milioni di persone, per capire il modo migliore di porsi e costruire, insieme, una possibilità di vita uguale per tutti, indipendentemente dal luogo di nascita.

di Valeria Confalonieri

Valeria Confalonieri




Handan se ne deve andare

Reportage / Breve viaggio nei quartieri di Istanbul (2a): Ayazma e Tarlabashi

Dopo Sulukule (cfr. MC, maggio), dove gli abitanti sono (o erano rom), adesso sgombrare tocca a Ayazma e Tarlabashi, quartieri di Istanbul in cui vivono molti profughi. Anche in questo caso le autorità turche parlano di una riqualificazione urbanistica che porterà benefici per tutti. Ma anche in questo caso sono gli affari che muovono tutto. Con in più una motivazione politica: gli abitanti sono in maggioranza curdi…

Istanbul. «Era notte fonda quando è arrivata la polizia. Svegliati di soprassalto, siamo stati costretti a uscire dalle case. Io non volevo uscire così. Era dicembre ed era freddo: mi sono rifiutata. Sono stata picchiata e a mio padre hanno rotto un braccio». Handan è curda e dimostra più dei suoi 15 anni. È cresciuta in fretta ed ha l’aspetto di una donna. Le ciabatte che indossa sbucano dal lungo vestito colorato. Mentre cammina tra le macerie, la sua voce è rotta dall’emozione. Racconta, sistemandosi il velo e indicando le pietre e i calcinacci che ci circondano. «Siamo usciti tutti e, dopo qualche ora, le nostre case non c’erano più».
Siamo ad Ayazma, gecekondu curda nella periferia di Istanbul, vicino allo stadio Atatürk dove si giocò la finale di Champions League nel 2005. Gecekondu significa «sorto in una notte», ed è un’espressione che indica le baraccopoli (1). Continuiamo a camminare facendo gimcana tra i cumuli di macerie.  Quando incontriamo una baracca o una tornilette improvvisata (una «turca» in mezzo al nulla e senza acqua corrente, per cui ogni volta che la si usa c’è un andirivieni con i secchi), Handan mi spiega che «prima non era così, non eravamo costretti a uscire per andare in bagno, ma soprattutto non dovevamo arrivare fin qui per prendere l’acqua». Mi indica un contatore fissato su un tubo che viene fuori dal terreno e mi fa capire a gesti che per quell’acqua pagano una bolletta troppo cara.

«Portami in Italia» 

Entriamo in una delle baracche, dove troviamo il padre di Handan e un amico. Ci sediamo su un tappeto che copre tutto il terreno, in un ambiente ordinato e pulito nonostante gli spazi ridotti. I due uomini mi mostrano un documento ufficiale firmato dal sindaco della municipalità di Küçükçekmece, Aziz Yeniay, in cui si dichiara che le demolizioni saranno l’occasione per gli abitanti di Ayazma per cambiare vita. La municipalità di Istanbul, quella di Küçükçekmece e Toki, l’«Amministrazione centrale alloggi», provvederanno a fornire soluzioni abitative tagliate sulle esigenze di ogni nucleo familiare, sia esso proprietario di immobile o affittuario. Nuove modee case con tutte le comodità sono la soluzione proposta agli abitanti di Ayazma, che, sempre secondo il documento, non si saranno dispersi ma rimarranno uniti in una nuova comunità. Segue una sfilza di documenti da presentare al comune per avere diritto ad una nuova abitazione. Molti residenti non hanno quelle carte, perché la maggior parte degli immobili è ancora abusiva. E 18 famiglie hanno deciso di rimanere ad Ayazma per denunciare l’operazione delle autorità, che fingono di non sapere che la maggior parte degli abitanti della gecekondu è costituita da profughi, scappati senza nulla dal sud-est della Turchia.  Mentre lascio il campo Handan mi prende da parte, sorride, e mi rivolge una preghiera: «Portami in Italia…».
Anche Ahmad è curdo, ha una piccola attività dove vende pezzi di ricambio per lavandini e oggetti di ferramenta, vive nello storico quartiere di Tarlabashi, a 2 fermate di tram da Taksim, il cuore commerciale di Istanbul. «Sono arrivato nel 1994. Abitavo in un villaggio del sud est della Turchia vicino Diyarbakir, ma la tensione e la presenza costante dei militari erano stressanti, molti dei nostri villaggi sono stati distrutti. Inoltre in quella zona non c’è lavoro, quindi mi sono trasferito qui, a Tarlabashi». La vita della comunità curda di questo quartiere ruota intorno a una via centrale con piccole attività commerciali, bar, una piazza e una moschea. In questo modo si è ricreato il tessuto sociale dei villaggi d’origine interessati dalle forti migrazioni intee degli anni ’90 (2) .
Nel piccolo retro del negozio dove Ahmad ci offre il tè si raccoglie un gruppetto di giovani: è raro che stranieri e turchi si fermino a parlare con i curdi nel cuore di Tarlabashi. La zona è considerata pericolosa, il tasso di criminalità, secondo la municipalità di Istanbul, è uno dei più alti in città.

Terroristi o criminali 

«Ayazma è bollata come roccaforte del Pkk (3), mentre a Tarlabashi semplicemente sono tutti criminali. Ecco come le istituzioni turche cercano di creare il consenso tra la popolazione per realizzare i loro progetti di riqualificazione urbana», sostiene Cihan Baysal, attivista turca che sta scrivendo la sua tesi di laurea sui diritti dei residenti di Ayazma per la Istanbul Bilgi University. «Ayazma nasce negli anni ’80, ma cresce nella metà degli anni ‘90 in seguito alle migrazioni intee. Le circa 2.000 case del quartiere divennero molto affollate allora. La gente costruì le case sul terreno statale, fuori dalla legalità, ma nel tempo, con i condoni edilizi, molti sono riusciti a ottenere la proprietà degli immobili».
I quartieri, sebbene molto diversi perché uno ha l’aspetto di un campo profughi mentre l’altro ha un ricco patrimonio architettonico, sorgono entrambi su un terreno che si è apprezzato. Il piano di riqualificazione delle aree urbane storiche e fatiscenti  (4) coinvolge entrambi, e uno degli attori principali è il Toki: «Il Toki è un ente pubblico – spiega Cihan – che dovrebbe costruire case popolari per gli strati meno abbienti della popolazione, ma negli ultimi anni, soprattutto dopo l’ascesa al potere dell’Akp (il “Partito per la giustizia e lo sviluppo” di Tayyip Erdogan oggi al potere, ndr) , si è trasformato in un’impresa al servizio degli strati più ricchi della popolazione: costruisce case eleganti e molto costose».
È proprio il Toki l’organismo incaricato di reclutare le società di costruzione che dovranno ricostruire Tarlabashi e Ayazma: da una ricerca dell’associazione turca Human Settlement Association le imprese che vincono i bandi risultano essere direttamente collegate all’Akp di Tayyip Erdogan e portano avanti forti speculazioni edilizie. 
«Sulla carta i residenti di Ayazma e Tarlabashi hanno gli stessi diritti della popolazione turca, quelli sanciti dalla Costituzione – continua Cihan -, in quanto sono cittadini della Repubblica turca, ma la realtà è molto diversa. Non hanno neanche i diritti sociali ed economici di un cittadino medio, per esempio dovrebbero avere la cosiddetta “carta verde” per avere diritto all’assistenza sanitaria gratuita, ma molti di loro non riescono ad ottenerla. Spesso fanno lavori umili e pesanti senza contributi e senza tutele, con stipendi da fame». La discriminazione si esprime al meglio quando si giocano le partite della nazionale turca nello Atatürk Stadium, sulla collina di fronte ad Ayazma: gli abitanti vengono intimati dalla polizia a non uscire dalle baracche per evitare che il pubblico internazionale veda cosa c’è fuori dallo stadio. Tra non molto questa misura d’ordine pubblico non avrà più nessuna importanza: Ayazma sarà sinonimo di villette a due o tre piani con giardino, dove le classi abbienti potranno muoversi liberamente. 

Intanto, a Tarlabashi …

Il quartiere di Tarlabashi è leggermente più agiato di Ayazma e non si trova in periferia, ma nel cuore commerciale di Istanbul.
A Tarlabashi la Bilgi University di Istanbul è presente con un ufficio. Nel quartiere, i problemi relativi a educazione, povertà e discriminazione vengono affrontati con l’aiuto di operatori e assistenti sociali. Ceren lavora con i bambini: «I problemi principali sono la mancanza di scolarizzazione e di strutture per bambini e anziani, e ovviamente la povertà».
Il professor Alper Unlu della Istanbul Technical University ha tenuto conto di queste problematiche e ha capito che qualsiasi piano di riqualificazione urbana deve passare attraverso una loro soluzione. Il progetto di recupero dell’area che ha presentato alla municipalità prevede la costruzione di scuole, centri culturali e sportivi per i residenti, insieme al restauro degli edifici, ma la municipalità di Beyoğlu ha preferito il piano presentato da un commerciante che possiede un hotel nella zona e che è riuscito a mettersi d’accordo con gli enti locali. «Istanbul dovrebbe essere capitale europea della cultura nel 2010, ma, quando si valuteranno i risultati di questi progetti, il comune e gli enti locali dovranno affrontare problemi seri».
Dello stesso parere è Jean-François Perouse, sociologo urbano direttore dell’Osservatorio urbano di Istanbul, facente parte dell’Istituto francese di studi sull’Anatolia: «Gli enti locali hanno come obiettivo primario far lavorare le società di costruzione legate all’Akp, lo sviluppo del turismo e la diversificazione sociale. Presentano questo progetto come un restauro dell’intera città per il 2010, ma aree come Tarlabashi e Ayazma devono essere svuotate per essere riempite di residenti appartenenti alla classe borghese, che ha un reddito più elevato e può migliorare l’immagine della città, secondo le autorità locali. Ayazma verrà ricostruita con casette a pochi piani per nuovi ricchi. È una politica molto miope».
Le autorità centrali e locali promuovono il progetto di riqualificazione urbana facendolo passare per un’iniziativa sociale senza precedenti, un punto di svolta nella vita di migliaia di famiglie. I nuovi quartieri di Bezirganbahce e Basibuyuk, dove la maggior parte dei residenti verrà trasferita, si presentano come sobborghi con palazzoni coloratissimi a 20 e più piani, molto vicini l’uno all’altro. E nelle strade neanche un albero. A metà aprile il sindaco di Istanbul, Kadir Topbaş, ha accompagnato una delegazione di giornalisti della televisione giapponese, a Istanbul per girare un documentario sulla città, nel quartiere di Bezirganbahce: la visita doveva essere un’occasione per mostrare l’operato della sua amministrazione, e quanto i nuovi appartamenti del Toki siano modei e confortevoli. L’accoglienza dei nuovi abitanti è stata una violenta protesta infarcita di improperi che è finita su tutti i giornali, e che in qualche modo il sindaco avrà dovuto spiegare agli attoniti ospiti. La visita successiva, che sarebbe dovuta svolgersi ad Ayazma per illustrare il progetto di riqualificazione dell’area, è stata prontamente annullata.
Lo stipendio medio di una famiglia di Bezirganbahce si aggira intorno alle 600-650 lire turche, mentre le spese di un appartamento, gas, acqua, elettricità e affitto, superano le 750 lire turche. Coloro che non possono pagare sono perseguitati dalle banche: se non si paga l’affitto per più di cinque mesi la banca manda un avviso a domicilio. Se il debito non viene saldato entro i termini prescritti, l’appartamento viene confiscato. «Se una donna rimane vedova questo è l’ineluttabile destino che l’aspetta», spiega Cihan Baysal. «Inoltre, la vita in questi quartieri è molto diversa da quella di comunità all’aperto di Ayazma, dove bastava uscire di casa per incontrare i vicini e far giocare i bambini nei prati. Ora le persone si sentono come prigioniere in piccoli spazi al 18° piano di palazzoni di cemento».

Case nuove e scadenti

Matteo Pasi è un videomaker che, insieme a Marcello Dapporto, ha realizzato il documentario «Ayazma. Ghetto curdo nel cuore di Istanbul». Una parte del suo lavoro riguarda i nuovi edifici dove gli sfollati ottengono un appartamento, dove tra non molto anche Handan e Ahmad saranno costretti a trasferirsi.
«I nuovi edifici nel distretto di Bezirganbahce – racconta Matteo – sembrano accettabili e vivibili, ma abbiamo potuto verificare che sono costruiti con materiali di secondo ordine. Continuamente si riscontrano problemi idraulici e di manutenzione, sia per la singola abitazione che per l’intero condominio. Alcuni condomini anziani buttano la spazzatura dal sesto piano perché l’ascensore non funziona per settimane. Diventeranno quartieri discarica, abbandonati a loro stessi e con persone senza alcuna possibilità economica, il cui problema non potrà più essere la questione culturale e politica curda, ma la sopravvivenza». 

Di Alessandra Cappelletti

 

Alessandra Cappelletti




Da vescovo dei poveri a presidente di tutti

Feando Lugo: da vescovo a presidente della Repubblica

Primo caso nella storia: mons. Feando Lugo lascia la sua carica episcopale e viene eletto presidente della Repubblica del Paraguay, paradiso per 500 famiglie in un mare di povertà: il neopresidente si è impegnato a cambiare il paese, combattendo la corruzione e promuovendone la crescita con equità sociale, con particolare riguardo alle categorie di persone più emarginate: indigeni, donne, disabili e giovani.

«La mia cattedrale è oggi l’intero Paraguay». Parola di un vescovo che è diventato presidente della Repubblica. Si chiama Feando Lugo, e la sua parabola sta facendo il giro del mondo. Ha sorpreso tutti, una mattina del dicembre 2006, quando decise di lasciare l’abito talare per buttarsi nelle acque vorticose della politica, dopo 30 anni di servizio vescovile. E ha meravigliato di nuovo tutti, il 20 aprile scorso, quando è riuscito a vincere le elezioni del suo paese con il 41% dei voti, 10% in più della rivale del partito al potere.
A dire il vero, non proprio tutti. I campesinos, gli indigeni, gli ultimi del suo paese lo sapevano già: sono andati in massa a votarlo, perché per loro Lugo era l’unica speranza di cambiamento. Sei milioni di abitanti, in un territorio poco più grande dell’Italia, e il 5% delle persone che ha in mano il 90% delle risorse economiche: il Paraguay è oggi una nazione allo sbando che, soia e ortaggi a parte, vive di importazioni. Asunción, la capitale, è per molti aspetti modea e viva, ma in netto contrasto con il resto del paese, così povero da essere inserito al penultimo livello dell’indice economico di sviluppo dell’Osce, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di sicurezza e cooperazione.
Allo stato di cose attuale, come troppo spesso è accaduto in America Latina, ha contribuito non poco il malgoverno di una delle classi politiche più corrotte della storia. Quella del Partido Colorado, infatti, prima della sconfitta di aprile, è rimasto al potere per 60 anni ininterrotti, 35 dei quali (dal 1954 al 1989) con una feroce dittatura manovrata dal generale Alfredo Stroessner, condannato nel 1997 per crimini contro l’umanità e morto a Brasilia nel 2006. Sei decenni in cui la forbice tra ricchi e poveri si è aperta sempre di più, in cui il clientelismo era diventato la regola anche del presidente uscente, Nicanor Duarte Frutos.

Ma ora è arrivato Feando Lugo, il «vescovo dei poveri», chiamato così per il suo operato nel mezzo della foresta e degli indigeni guaraní, nella diocesi di San Pedro. «L’ho incontrato cinque anni fa: è una persona estremamente cordiale, alla mano, con un carisma enorme, ma molto semplice», dice di lui il cornoperante Giuseppe Polini, in Paraguay per conto dell’ong italiana Coopi.
 E la conferma alle parole del cornoperante è arrivata anche a noi, quando, all’indomani della richiesta a Lugo, tramite l’ufficio stampa della sua coalizione, di concederci un’intervista, la risposta è stata positiva. Mancavano ancora pochi giorni alle elezioni, ma l’ex vescovo sentiva già la vittoria vicina: «A parte colpi di scena o attentati, alcuni dei quali sono già stati minacciati» ha ammesso Lugo.
Tutto è poi filato liscio, ma ancora oggi, in ogni uscita, una folta schiera di giovani volontarie guardie del corpo lo segue. Come se non bastasse, il giorno precedente all’intervista, l’ex vescovo cattolico aveva ricevuto dal rappresentante spirituale degli indigeni guaraní un vero e proprio esorcismo contro «le forze maligne».
E il primo tema che il neopresidente affronta con noi è proprio legato alle fasce deboli del Paraguay: «Oggi nel mio paese solo uno sparuto gruppo di persone vive con dignità. La maggioranza sopporta gravi mancanze, soprattutto i più indifesi, come gli indigeni, le donne, le persone con disabilità e i giovani che, appena possono, lasciano il paese» spiega Lugo prima di entrare concretamente in quelle che saranno le sue priorità.
«La mia prima azione concreta come presidente sarà riformare l’apparato economico verso uno sviluppo che si basi sull’equità sociale. E non sto parlando solo di macroeconomia: deve crescere l’economia personale, familiare, il cambiamento deve farsi sentire nel portafoglio di ogni cittadino» aggiunge senza mezze misure. «Metteremo in atto una riforma agraria integrale che, oltre a ridistribuire terre ai contadini, li assista con forme di microcredito, protezione dal mercato, attenzione alla loro educazione, alla salute». Qual è l’obiettivo finale? «Ottenere un migliore sviluppo umano per tutti, senza discriminazioni, partendo dallo sradicare l’alta percentuale di povertà estrema».

La prima impressione è che le parole di Lugo non siano semplici promesse elettorali. A confermarlo il fatto che l’ex vescovo sia stato candidato da una serie di partiti di differenti origini, dai socialisti ai liberali, ma soprattutto da ben sette movimenti della società civile, che conoscono da vicino il suo operato avendo collaborato con lui in passato. «Lugo era l’uomo giusto al momento giusto, una figura che ha messo in moto una nuova riflessione nel paese e ha rotto a 360 gradi gli schemi politici anchilosati del passato» suggerisce Enrico Garbellini, cornoperante in Paraguay del Movimento laici America Latina (Mlal), che gestisce un progetto di sostegno agricolo a 3 mila famiglie di contadini del Chaco, un’immensa quanto desolata area che copre il 60% del territorio del paese e raccoglie solo il 2% degli abitanti.
La coalizione che ha fatto vincere Lugo è l’Alianza patriótica para el cambiamento, ma il movimento di cittadini che per primo lo ha sostenuto è il Tekojoja, parola che in guaraní (una delle due lingue ufficiali del paese, parlata più dello spagnolo, 94% contro 75%) significa «unità». «La mia scelta è stata ancora più avvalorata dall’appoggio di tante persone comuni: mi hanno fatto capire che un altro modo di fare politica è possibile» aggiunge Lugo, parafrasando il motto delle grandi mobilitazioni dei Forum sociali mondiali, da Porto Alegre a Mumbay, da Caracas a Nairobi. L’ex vescovo, e con lui la società civile del Paraguay, è riuscito a portare ai massimi livelli un modello, quello nato in seno ai Forum, che è fino ad oggi fallito in molte altre parti del mondo, soprattutto in Europa.
Qual è il segreto del successo? «Nessun segreto. Siamo riusciti a rendere la democrazia da rappresentativa a partecipativa. È quello che sta succedendo in America Latina da quasi un decennio, con l’avvento di nuove figure», spiega Lugo.
La lista di questi nuovi carismi è lunga: Lula in Brasile, i Kirchner in Argentina, Chavez (una figura però spesso discussa per il suo populismo e gli eccessi di antiamericanismo) in Venezuela, la Bachelet in Cile, Correa in Ecuador e Morales in Bolivia. «In generale, noto un crescente interesse per approfondire il concetto di democrazia, che non funziona solo tramite leggi o decreti, ma nasce da un nuovo soggetto politico, la società civile appunto, che esige uno spazio proprio sempre più ampio dove poter contare. Questo in Europa non è successo, le idee altermondialiste non hanno prosperato come molti speravano» analizza il neopresidente del Paraguay.
«Questa nuova onda creata dalla partecipazione attiva alla vita politica è in continuo avanzamento, e dalle nostre parti sta dando alla democrazia di oggi una ricchezza inestimabile. Da semplice oggetto nelle mani di poche persone al potere, la cittadinanza è diventata oggi la protagonista del proprio destino: reputo questo cambiamento la principale rivoluzione del xxi secolo».

Parole forti, dirette. Nel suo stile di vescovo abituato ad avere a che fare con problemi concreti, necessità profonde delle centinaia di suoi fedeli. Quei fedeli a cui ha dovuto dire addio un anno e mezzo fa, quando ha maturato la scelta di cambiare vita.
Su questo tema Lugo si sofferma volentieri, nonostante si trovi in una situazione delicata, soprattutto nei suoi rapporti con il Vaticano, tanto che due giorni dopo la vittoria ha chiesto ufficialmente scusa al papa per la sua richiesta di riduzione allo stato laicale, richiesta che gli era stata respinta; rimane invece la sospensione a divinis, cioè, la proibizione delle funzioni sacramentali.
«Della mia rinuncia al servizio di vescovo per dedicarmi in modo attivo alla politica si è parlato molto. E anch’io ho discusso molto con me stesso – confessa Feando Lugo -. Il 18 dicembre 2006 ho comunicato la mia decisione, ma devo confessare che la notte precedente, il 17, è stata la più lunga di tutta la mia vita. Non è stato per niente facile, non è facile lasciarsi alle spalle 30 anni di vita religiosa, totalmente dedicata alla chiesa, per poi decidere un giorno di abbandonarla e buttarsi in un’altra attività».
«Oggi, a distanza di tempo – continua il neopresidente, rivelando più apertamente i suoi sentimenti – mi sento felice, perché non ho alcun timore nel muovere i miei passi. Mi emoziona il contatto con le persone che incontro ogni giorno e sentire la speranza che suscita in loro il mio nuovo ruolo politico».
E sulla sua condizione attuale dice: «Penso di essere il primo vescovo della storia che rinuncia alla sua posizione per dedicarsi al 100% alla politica. Ho svolto i 30 anni della mia opera sacerdotale sempre in comunità rurali povere, o meglio impoverite, e ho sentito molto da vicino le loro privazioni, i loro dolori: ecco le radici del mio cambio di vita. Ho capito che la sola azione pastorale non era sufficiente, c’era bisogno di un impegno ancora più diretto. Per questo ho intrapreso la strada della politica».
Nel dire questo, Lugo non nasconde il suo terreno di formazione: «Sono un uomo religioso, fortemente influenzato dalla dottrina sociale della chiesa e dalla teologia della liberazione, che sono le fonti ispiratrici del mio pensiero e delle mie azioni».
Per molti, Feando Lugo ha raccolto l’eredità di monsignor Oscar Romero, l’arcivescovo salvadoregno ucciso da sicari governativi nel 1980 per la sua difesa incessante degli ultimi. La speranza è che, a differenza di Romero, il destino dell’ex vescovo paraguaiano prenda altre strade, quelle di un’America Latina finalmente libera dal terrorismo degli anni bui di quasi tutta la sua storia.
L’avere attorno a sé governi «amici», con cui raggiungere accordi in vari settori, di certo, può aiutare il Paraguay ad alleviare molti dei suoi problemi attuali; anche di questo aspetto il neopresidente non esita a parlare: «Mi rendo conto che il nostro è un piccolo paese tra vicini molto grandi e potenti, tanto che il nostro più celebre scrittore nazionale, Augusto Roa Bastos, lo descrisse come “un’isola circondata da terra”. Ma non ci sentiamo affatto isolati. Oggi vogliamo essere parte di questo cambiamento in atto nel continente, ovvero di un mondo in pieno processo di integrazione, che cerca con disperazione un destino migliore attraverso cammini diversi dal passato, che nascono da una sorta di “unità nella diversità”, che si riflette anche nei rapporti tra i vari leader».
A chi si sente più vicino Lugo? A Lula, che ha incontrato una settimana prima del voto? O a Chavez, che ha dichiarato di stimarlo molto? «Non ho una predilezione per l’uno o per l’altro – è la franca risposta dell’ex vescovo -. Non si cada nell’errore di cercare le similitudini fra me e loro: io rispetto tutti e mi aspetto di essere rispettato».

Il 15 agosto prossimo, giorno del passaggio di consegne tra governo uscente e nuovo, Feando Lugo siederà per la prima volta sulla poltrona presidenziale. Come arriverà a tale data? «Consapevole del grande compito che mi spetta, in primo luogo, voglio cancellare la corruzione radicata nel sistema e tradurla in onestà, per far capire ai giovani che il Paraguay è un posto dove poter rimanere a lavorare (oggi un giovane su cinque non ha un lavoro, ndr) e mettere su famiglia. La sola idea di partecipare alla costruzione di una società nuova è già di per sè una motivazione molto importante, che li può spingere ad amare il proprio paese anziché scappare altrove».
Il «vescovo dei poveri» ce la farà a essere il «presidente di tutti»? «Di sicuro l’inesperienza politica può essere un deficit per Lugo, per questo è importante che si circondi di buoni consulenti che giorno per giorno gli stiano a fianco nelle numerose battaglie che si troverà di fronte, su tutti i livelli» riprende il cornoperante del Mlal Garbellini.
Forse, da solo non ce la può fare; e comunque, se ne uscirà a testa alta, questa sua incredibile ascesa rimarrà un’esperienza che non può che far ben sperare a quanti credono nella politica sana, totalmente dedita ai bisogni della cittadinanza e non ai propri interessi.
Forse, la stessa chiesa cattolica lo rivorrà come vescovo. Forse no. Ma quella di Feando Lugo, primo vescovo-presidente della storia dell’America Latina e del mondo, rimarrà una conquista fondamentale nel campo dei diritti civili della società modea. La conferma sta nelle ultime parole che Lugo ci rivolge: «La tranquillità della mia coscienza e l’empatia verso la mia gente sono gli stimoli più grandi che posseggo in questo momento. Che mi chiamino ancora monsignore, come accade, o semplicemente Feando o signor Lugo, non ha importanza, ciò che importa è il rispetto e l’affetto che uno si è guadagnato nel tempo. Per quello che sento attorno a me, non posso che ritenermi soddisfatto. Vivo il mio nuovo cammino tenendo sempre in mente queste parole di papa Pio xi: “La politica è l’espressione più sublime dell’amore”».
Buona fortuna, Feando! 

Di Daniele Biella

Daniele Biella




In cerca di futuro

Svolta alle elezioni, aspettando il ballottaggio

Uno splendido paese. Un tempo granaio dell’Africa, quando era retto da un regime di apartheid. Ora, gestito da una dittatura, è in caduta libera. Le ultime elezioni hanno ancora scatenato la repressione. Ma fanno intravedere un possibile cambiamento. Però il presidente Mugabe è troppo attaccato al potere (che detiene da oltre 28 anni). Così sta trascinando il  suo popolo nel baratro.

Il sogno si è trasformato in un incubo. Il primo era quello di un paese africano nel quale convivevano bianchi e neri, con un’economia florida in grado di esportare derrate agricole e una classe politica lungimirante e in grado di creare infrastrutture eccellenti, un sistema scolastico di primo livello e un sistema sanitario quasi europeo.
L’incubo è uno stato in cui i bianchi sono quasi tutti scappati all’estero, l’economia è al tracollo, il sistema politico da democrazia si è trasformato in dittatura (o forse sarebbe meglio dire tirannia) di un anziano leader attaccato al potere come un mollusco alla roccia. Il sogno è quello che ha vissuto lo Zimbabwe negli anni Ottanta e Novanta. L’incubo è quello che, sempre lo Zimbabwe, sta vivendo da otto anni a questa parte.
«Quando arrivai ad Harare – ricorda un volontario italiano che da anni vive nel paese – avevo alle spalle  un’esperienza in Uganda, durante la sanguinosissima guerra civile, e un’altra in Etiopia, nel corso del conflitto che portò alla caduta di Menghistu. Erano gli anni Novanta e lo Zimbabwe mi sembrava un paradiso. Un Paese africano in cui tutto funzionava. Poi, dopo i primi anni felici, è iniziato il tracollo.
Ora stiamo vivendo una crisi tremenda dalla quale non credo riusciremo a risollevarci».

La genesi della crisi

Se la crisi si è manifestata all’inizio degli anni Duemila, le radici sono più profonde.  Tutto è iniziato nel 1979 con gli accordi di Lancaster House grazie ai quali la Rhodesia diventava Zimbabwe e finiva un regime di apartheid instaurato dalla minoranza bianca nel 1964.
Negli accordi era prevista la cessione del potere ai neri, ma non la cessione delle terre (le più fertili) possedute dai bianchi. I grandi proprietari di origine europea decisero quindi di non lasciare il paese, ma di continuare a coltivare le loro tenute.
Nel 1990, una legge intervenne per obbligare i bianchi, qualora avessero deciso di cedere le loro terre, a offrirle innanzitutto al governo di Harare.  Grazie a questa legge lo stato zimbabwiano riuscì a entrare in possesso di 500 mila ettari di terra fertile. Queste tenute, se fossero state ben distribuite, avrebbero potuto dare lavoro e benessere a migliaia di neri. Nei fatti però vennero cedute solo ai gerarchi del partito e ai militari che non le coltivavano.
Ciò però non impedì che l’economia marciasse a buoni livelli, grazie alla produzione delle tenute dei bianchi che, oltre a dare lavoro a 350 mila contadini (in gran parte neri), davano impulso a tutta l’economia nazionale. Da queste tenute arrivavano il 50% di tutte le esportazioni, il 65% del cibo necessario al paese e alimentavano il 60% dell’attività industriale zimbabwiana.

Come si affossa un paese

Nel 2000, la svolta. Robert Mugabe, al governo dal 1979, sente il suo potere vacillare. Indice un referendum che, modificando la costituzione, intende rafforzare i suoi poteri. La consultazione viene bocciata e Mugabe incolpa i bianchi della sconfitta. Inizia così una campagna di espropri delle loro tenute.
Una campagna portata avanti con violenza. Alcuni white farmers vengono uccisi. «In realtà – osserva un altro volontario -, la violenza non si diresse solo contro i bianchi, ma anche contro gli oppositori neri. Non esistono statistiche ufficiali, ma i morti per causa politica nel 2000 e 2001 furono centinaia, soprattutto tra i neri».
Le terre espropriate non vengono più coltivate. La produzione agricola crolla. Il paese da esportatore di derrate alimentari diventa importatore. I coltivatori bianchi fuggono all’estero. La povertà si accentua, soprattutto nelle zone rurali. Si diffonde il «mercato nero» e le speculazioni. «La gente è allo stremo – spiegano i volontari – non c’è lavoro, non c’è da mangiare. Oggi lo Zimbabwe è retto da un’oligarchia di famiglie legate a Robert Mugabe che gestiscono il “mercato nero”  facendo impennare l’inflazione e impoverendo la povera gente. L’inflazione è salita a livelli record: si parla del 160 mila % su base annua».
Anche il sistema sanitario è allo stremo. Con l’aggravarsi della crisi economica, la situazione è degenerata. Mancano gli strumenti di lavoro nei reparti di chirurgia. Aumentano i parti a rischio per la carenza di personale ostetrico. Stanno chiudendo anche i pochi centri d’eccellenza.
Negli ultimi dieci anni l’aspettativa di vita è scesa da 61 a 37 anni per gli uomini e a 34 per le donne. «La vita – spiega un sacerdote – è diventata intollerabile per la maggioranza della gente. Per questo motivo sta crescendo velocemente il malcontento».

Elezioni:  il sorpasso

Questo malcontento si è trasformato in un voto a favore del partito di opposizione, il Movimento per il Cambiamento Democratico (Mdc), alle elezioni del 29 marzo scorso. «Ormai è chiaro – spiega un giornalista sudafricano – che il presidente Robert Mugabe ha perso. Il dramma è che non vuole rassegnarsi a lasciare il potere. Così ha imposto alla commissione elettorale di non pubblicare i risultati delle elezioni presidenziali e ha forzato la stessa commissione a ordinare il riconteggio delle schede elettorali delle legislative in 23 collegi. Nel frattempo, in silenzio, ha ordinato a un gruppo di ufficiali dell’esercito di organizzare bande allo scopo di terrorizzare la popolazione rurale, che ha votato contro di lui alle elezioni.
Quello che più urta Mugabe è che province rurali che tradizionalmente lo sostenevano, questa volta abbiano appoggiato l’opposizione dell’Mdc».
I risultati dello scrutinio sono stati resi pubblici dalla Commissione elettorale solo il 2 maggio e danno all’Mdc una storica vittoria  (47,9% dei voti),  mentre il partito di Mugabe si attesta sul 43,2% e Simba Makoni (ex ministro) ha avuto l’8,3%.  Secondo l’Mdc, Tsvangirai avrebbe invece ottenuto oltre il 50%, aggiudicandosi la presidenza al primo tuo, ma molte son le denunce di brogli.
Lo Zanu-Pf (Zimbabwe african national union – Patriotic front),  il partito di governo al potere dall’indipendenza, ha inoltre, per la prima volta perso la maggioranza in parlamento nel quale l’Mdc conquista 109 seggi su 210 (mentre lo Zanu-Pf ne avrebbe 93 e 12 restano da assegnare).
Entrambi i partiti, intanto, hanno contestato i risultati del voto legislativo davanti al tribunale elettorale in metà delle circoscrizioni.
L’oppositore storico (sempre al sicuro in Sudafrica) accetterà di correre per il ballottaggio solo «se ci saranno le condizioni». Il clima di «violenze, torture e saccheggi», secondo la Sadc (Comunità per lo sviluppo dell’Africa australe), renderebbe difficile, se non impossibile, un’ulteriore consultazione. Si è anche parlato di possibile «soluzione negoziata», ma finalmente il secondo tuo è tato fissato il 27 giugno prossimo.
Sempre l’Mdc denucia l’ondata di repressione, dichirando l’uccisione di 30 dei propri militanti dopo le elezioni del 29 marzo. Il sindacato degli agricoltori denuncia invece 40.000 sfollati in zona rurale.

Arroccato al potere

Purtroppo non si vede come Mugabe possa lasciare il potere. Il presidente gode ancora di forti appoggi all’estero. Il suo sponsor più importante è il presidente sudafricano Thabo Mbeki che lo ha sempre appoggiato in nome di una mal riposta solidarietà «rivoluzionaria».
Lo Zanu-Pf, , l’Anc (African national congress di Mandela e Mbeki) hanno a lungo combattuto insieme contro l’apartheid. «Ai tempi la loro è stata una lotta sacrosanta – spiegano alcuni osservatori -. Ma oggi in nome di quegli antichi legami non si può giustificare e sostenere una dittatura feroce come quella di Mugabe. In Zimbabwe stanno morendo migliaia di persone per fame. Ciò non è compreso neppure in Europa.
Molti pensano che Mugabe sia quel rivoluzionario che aveva combattuto l’apartheid. Anche alcuni giornali italiani lo appoggiano. A chi vive qui sembra incredibile». 

Di Tesfaie Gebremariam

SEGREGAZIONISMO AL POTERE

«Non credo che i neri potranno governare la Rhodesia, almeno per i prossimi mille anni». Ian Smith  non poteva essere più chiaro sul suo programma politico. La supremazia bianca andava difesa a tutti i costi. E la difese a tutti i costi anche contro la Gran Bretagna che lui considerava la patria di riferimento.
Nata nel 1898 e diventata colonia britannica nel 1923, la Rhodesia del Sud si differenziò rispetto alla Rhodesia settentrionale (gli attuali Zambia e Malawi) per il forte potere economico della piccola minoranza bianca (circa 250 mila persone contro una popolazione nera di 5 milioni). Un potere che i bianchi (quasi tutti di origine britannica) non vollero lasciare neanche quando nel 1964 il Malawi e lo Zambia diventarono indipendenti e anche la Rhodesia meridionale era in procinto di diventarlo.

Fu Ian Smith (1919-2007) a evitare l’indipendenza e la presa di potere da parte della maggioranza africana. Con un discorso divenuto celebre come «Dichiarazione unilaterale di indipendenza», Smith proclamò la Rhodesia meridionale indipendente dalla Gran Bretagna e le cambiò il nome in Rhodesia. Nel nuovo Stato vigeva un rigido apartheid e ciò gli procurò l’isolamento internazionale (attenuato solo dall’appoggio del Sudafrica allora governato anch’esso da un regime segregazionista). Ian Smith fu l’incarnazione vivente di quella Rhodesia bianca, anglosassone e razzista. Figlio di farmer di origine britannica, aveva combattuto durante la seconda guerra mondiale nella Royal air Force (Raf). Venne abbattuto due volte: una nel deserto del Sahara e l’altra in Liguria, dove per mesi combatté con i partigiani italiani.

Dopo la guerra, si diede all’attività politica, diventando prima ministro e poi premier. Il suo governo dovette affrontare la durissima guerriglia combattuta dalle formazioni marxiste dello Zanu, guidata da Robert Mugabe, e dello Zapu, di Joshua Nkomo. La guerra civile cessò con gli Accordi di Lancaster House, nei quali il governo bianco cedeva il potere alla maggioranza nera. Ian Smith continuò a sedere in Parlamento fino al 1987.
Poi si dedicò alla sua tenuta agricola. A chi gli chiedeva un parere sulla situazione economica e politica dello Zimbabwe lui rispondeva che quando aveva lasciato la guida del paese, l’economia era solida e i neri comunque godevano di un buon livello di assistenza sociale. «Questo è quanto fecero i rhodesiani – disse poco prima di morire -. Mi piacerebbe sapere perché non ce ne viene dato atto». Forse è vero, l’economia era florida. Certo questo non giustificava l’apartheid.

T.G.

OPPOSIZIONE A OLTRANZA

Lo chiamano il Lech Walesa di Harare. E, infatti, come il leader polacco di Solidaosc, anche Morgan Tsvangirai proviene dal sindacato e, con il sindacato, ha combattuto le sue prime battaglie contro il potere politico. Ma le similitudini non fermano qui. Tsvangirai ha la stessa determinazione del leader polacco e la stessa volontà di non fermarsi davanti alla violenza e alla prepotenza del regime.

Tsvangirai è nato nel 1952 nel distretto di Gutu in quella che allora si chiamava Rhodesia meridionale. Figlio di un carpentiere, nel 1974 è costretto ad abbandonare gli studi per andare a lavorare in una miniera di nichel. La dura vita come minatore lo portano a impegnarsi nel Congresso dei sindacati dello Zimbabwe (Zctu), la più grande confederazione sindacale del Paese, fino a diventae il segretario generale nel 1989. Alla guida del sindacato, entra in rotta di collisione con il governo e rompe la tradizionale alleanza tra Zctu e Zanu-Pf (il partito unico al potere dal 1980). Da quel momento per lui la vita diventa un inferno. I pretoriani governativi lo minacciano, distruggono le sedi della sua organizzazione e picchiano lui e i suoi collaboratori. Tsvangirai però non si ferma e nel 1999 fonda il Movimento per il cambiamento democratico (Mdc) destinato ben presto a diventare il più grande partito d’opposizione del Paese. Promette una transizione senza violenze e un rilancio dell’economia nazionale, distrutta da un decennio di malgoverno. Si candida alle elezioni parlamentari del 2000 e a quelle presidenziali del 2002, perdendole entrambe. Ma il sospetto è che, dietro alla doppia vittoria di Mugabe e dello Zanu-Pf, ci siano stati enormi brogli e manipolazioni. Viene più volte arrestato con accuse diverse.

Nel 2007, dopo l’ennesimo arresto con un’imputazione fasulla, viene pesantemente torturato dalle forze speciali di Mugabe. Il cameraman zimbabwiano, che riprende la faccia tumefatta di Tsvangirai all’uscita dalla prigione, viene ucciso, probabilmente da sicari del regime. Il leader dell’Mdc è benvisto dai diplomatici americani e europei (soprattutto quelli britannici). Ma è riuscito a trovare sostegno anche in Sudafrica. Non quello di Thabo Mbeki che continua ad aiutare Robert Mugabe, ma quello di Jacob Zuma, il neo leader dell’Anc. Zuma, come Tsvangirai, ha un’esperienza sindacale e, come lui, appartiene alla generazione di leader che non hanno partecipato alle lotte anticoloniali. Forse proprio questa nuova alleanza favorirà il cambiamento in Zimbabwe.

T.G.

Tesfaie Gebremariam




Il mercato ha sempre ragione

Il professore

Delle diverse teorie economiche la Nuova economia istituzionale (Nie), cerca di  sorpassare l’approccio astratto del mercato. E spiega l’importanza delle istituzioni economiche come fatto culturale. Ma non riesce a liberarsi dell’ossessione del mercato. E lo vede come unico mezzo per raggiungere lo sviluppo dei popoli.

La Nuova economia istituzionale (New Institutional Eco­nomics, Nie) ha tratto spunto dalle ricerche effettuate da Ro­nald Coase alla fine degli anni ‘30. Le intuizioni di Coase sono state riprese negli anni ‘70, soprattutto grazie al contributo di Oliver Williamson.
Da proposta di un gruppo ristretto di studiosi,  la Nie è venuta acquisendo un riconoscimento sempre più ampio, tant’è  che  quasi tutti gli economisti oggi riconoscono che la loro disciplina ha una natura istituzionale.
Il termine Nie è stato coniato per distinguerla dalla Vecchia economia istituzionale, che si affermò nel primo Novecento negli Stati Uniti, con autori come  Wesley Mitchell, John Commons e  Thorstein Veblen.
Per la verità, come vedremo, la Vecchia economia istituzionale non appare così vecchia, e per molti aspetti appare più interessante e utile della nuova.
Quest’ultima si è venuta affermando come una critica del modello neoclassico, che ha caratterizzato la disciplina economica a partire dalla fine dell’800. Oggi sempre più questo modello viene sottoposto a critiche serrate:  la Nie ha rappresentato un tentativo di salvare l’apparato analitico dell’economia neoclassica, cercando di renderla meno astratta e formalistica.

L’homo Œconomicus
e il vizio dell’egoismo

Gli economisti neoclassici infatti hanno elaborato un corpo dottrinale molto elegante e raffinato, che parte da alcune ipotesi astratte sul comportamento dell’uomo, e in particolare dall’ipotesi dell’homo œconomicus, cioè di un individuo isolato, unicamente interessato alla massimizzazione della sua utilità individuale. L’approccio è di tipo deduttivo e astorico, ma pretende ciononostante di fornire una spiegazione realistica del funzionamento dei mercati in una economia capitalistica.
In realtà molti ritengono che il vero obiettivo di questo approccio disciplinare sia di tipo normativo. Intenda cioè dimostrare che il meccanismo di mercato porta al benessere collettivo: la pratica dell’egoismo individuale, per il noto paradosso della   mano invisibile, produrrebbe la felicità collettiva. Non è grazie alla virtù (l’altruismo), ma grazie al vizio (l’egoismo) che si può ottenere il migliore dei mondi possibili. L’economia neoclassica, con il suo apparato analitico, ha una natura sostanzialmente giustificazionista del modello del mercato quale meccanismo organizzativo complessivo dell’intera società.

Ridurre il livello
di astrazione

La Nie cerca di rendere il modello neoclassico più realistico, di avvicinarlo maggiormente alle modalità concrete di funzionamento dei mercati: essa però non esce dal quadro concettuale dell’economia neoclassica e ne accetta l’impostazione metodologica. Il mercato continua ad essere considerato astoricamente, come un dato di fatto, quasi un fenomeno naturale, prima del quale non è successo nulla e dopo il quale non succederà nulla. L’economia in sostanza viene considerata non come una disciplina di natura storica, ma come se fosse una scienza naturale.
Lo sforzo della Nie è dunque in sostanza, come si è detto, quello di rendere meno astratte le ipotesi degli economisti neoclassici.
A ben guardare, le correzioni che vengono introdotte hanno una natura di semplice buon senso. Si fa notare che le possibilità conoscitive delle persone sono limitate, e che non si può immaginare che gli operatori economici razionali abbiano una conoscenza completa della situazione ambientale in cui si trovano ad operare e di tutte le opzioni alternative possibili. Si parla a questo proposito di informazione imperfetta.
Inoltre si osserva che quando due operatori si scambiano dei beni e dei servizi, uno dei due (più frequentemente il venditore) conosce le caratteristiche del bene che viene scambiato meglio del compratore. Si parla a questo proposito di informazione asimmetrica.
Si riconosce, infine, che nelle attività di scambio sono frequenti pratiche di opportunismo: si parla a questo proposito di moral hazard, per intendere che, una volta stipulato un contratto, uno dei contraenti potrebbe  approfittare a danno dell’altro della nuova situazione in cui si viene a trovare.

Difficoltà del mercato e
nascita delle imprese

Partendo da queste semplici considerazioni, gli economisti della Nie hanno elaborato il concetto di «costo di transazione». Si intende con ciò che lo scambio di beni e servizi tra due operatori non è così semplice e immediato come gli economisti neoclassici hanno ipotizzato. Il compratore deve individuare il venditore (e viceversa), disposto a stipulare il contratto. Uno dei due contraenti dispone di informazioni più dettagliate dell’altro; gli accordi contrattuali spesso non vengono osservati e così via.
In certe circostanze lo scambio di mercato appare particolarmente complesso e laborioso, ragion per cui i costi di transazione possono rivelarsi elevati.
Per questo allo scambio di mercato può essere preferibile sostituire un meccanismo diverso, quello della gerarchia. In sostanza gli operatori anziché scambiarsi i beni sul mercato danno vita a delle organizzazioni, le imprese, all’interno delle quali ad alcuni soggetti (i proprietari) si attribuisce il potere di definire i compiti di altri soggetti (i lavoratori). Al meccanismo paritario del mercato si sostituisce quello autoritario dell’impresa.
Le difficoltà di funzionamento dei mercati e le ragioni della formazione delle imprese sono i risultati principali della proposta teorica della Nie. Come si è detto, essi ricevono oggi un’accettazione pressoché unanime nell’ambito della disciplina economica.
Molti autori tuttavia ritengono che le correzioni apportate dalla Nie non siano sufficienti per contestare l’approccio astorico ed astratto degli economisti neoclassici.

Il mercato ha una storia

Alla base di queste critiche ritroviamo un’interpretazione più ampia del concetto di istituzione.
Per la Nie le istituzioni sono in primo luogo i  contratti e le regole di funzionamento delle imprese: sono essi  che consentono a un’economia di mercato di funzionare correttamente.
Tuttavia la Nie presuppone l’esistenza stessa del meccanismo del mercato, e non si domanda sulla base di quali regole esso sia stato creato.
La Nie studia le regole e le organizzazioni tramite le quali il mercato può operare; ma non si interroga su quali  regole ed  organizzazioni siano necessarie perché lo stesso mercato possa esistere.
Tra gli autori che hanno sollevato questa critica il più autorevole è Douglass North, premio Nobel per l’economia (premio  che, sia pure tardivamente, fu concesso anche a R. Coase).
Egli definisce anzitutto in modo più ampio il concetto di istituzione: essa è una regola o una norma che disciplina il comportamento degli uomini in società.
Tali norme possono essere formali (create dallo Stato) o informali (create spontaneamente dall’interazione degli attori sociali). Ma egli osserva che, senza un quadro normativo preesistente, nessuna economia, neppure quella di mercato, potrebbe funzionare.
North reintroduce  la prospettiva storica nell’analisi economica. Il mercato non si configura più come un fenomeno quasi naturale, ma come un fenomeno storico che si è venuto formando sulla base di regole che sono state introdotte dallo Stato o che si sono venute creando spontaneamente dall’interazione degli operatori.
Inoltre North aiuta a comprendere come le istituzioni economiche siano un fatto culturale, che nasce da scelte operate dalle precedenti generazioni, sulla base di opinioni, preferenze, credenze e visioni del mondo.
Una visione, la sua, molto più ampia e interdisciplinare del mondo dell’economia, che non viene più considerato come riducibile ad un meccanismo astorico e immutabile, di cui interessa conoscere unicamente la logica di funzionamento, in quanto eterno e immodificabile (si può a questo proposito ricordare la famosa espressione di Fukuyama: siamo giunti alla fine della storia, il mercato è la dimensione  in cui sempre vivremo). La visione di North è quindi molto più completa e convincente.

Gli economisti e
la loro ossessione

Ciononostante, paradossalmente, lo stesso North non pare riuscire a liberarsi completamente dall’ossessione del mercato: per quanto ne metta in evidenza le precondizioni storiche e culturali, e ne definisca le specificità istituzionali, anche per lui il mercato è un meccanismo dal quale non si può prescindere.
Quando ad esempio  si pone il problema del sottosviluppo e delle vie da percorrere per il suo superamento,  egli ne vede una sola, quella dell’introduzione di un corretto meccanismo di mercato: non considera la possibilità che un sistema di funzionamento dell’economia non fondato sul mercato possa essere compatibile con lo sviluppo.
Sotto questo profilo certi spunti che si possono ancora oggi trovare nella Vecchia economia istituzionale (nonché in una scuola economica a essa vicina e che si affermò in Europa a cavallo tra l’800 e il ‘900, la Scuola storica tedesca) appaiono oggi più utili e stimolanti dell’approccio della Nie (sia pure nella versione ampliata e rinnovata di  North), che resta invece ossessionata dall’ideologia del mercato e incapace di immaginae un superamento. 

Di Enrico Luzzati

Enrico Luzzati




Il banchiere dei poveri, versione Afro

Il caso: un’economia comunitaria è possibile

In un villaggio sperduto del Nord del Senegal si sperimenta un’esperienza interessante. Microcredito per finanziare l’agricoltura. Non solo. Un sistema cornoperativo, ma anche comunitario e solidale, fatto da agricoltori per gli agricoltori. E la cosa più sorprendente è che funziona.   

Ronkh. Un villaggio polveroso sulle rive del fiume Senegal, nel Nord dell’omonimo paese, giusto al confine con la Mauritania. File di basse case in mattoni di cemento, scarne e grigie. Tutte simili. Siamo nella valle del fiume, la zona dell’antico reame Walo. Qui i contadini, da secoli, coltivano miglio, sorgo, mais e patata dolce per il sostentamento delle loro famiglie. E sempre in questa zona, i sostenitori del capitalismo selvaggio hanno introdotto all’inizio degli anni ‘60 la risicoltura creando grandi perimetri irrigui.
Ancora oggi parte della popolazione lavora in questi perimetri producendo per terzi. I produttori hanno però mantenuto delle porzioni di terra nella quale coltivano riso, in parte utilizzato per nutrire la famiglia e in parte venduto per acquisire altri beni di prima necessità.

La favola dei Foyer

Proprio da Ronkh, negli anni Sessanta, è partito un movimento che ha visto i contadini organizzarsi in gruppi di base detti Foyer (famiglia in senso allargato), poi diffusi in tutta la valle, fino ad associarsi in strutture regionali. Nasce così, da nove Foyer, nel 1976, l’organizzazione contadina conosciuta come Asescaw (Amicale socio economica sportiva e culturale degli agricoltori del Walo), ancora oggi molto attiva. 
Questa organizzazione è all’origine, tra le altre cose, di un’esperienza molto particolare di «banca dei poveri».

Un cassa di credito
per tutte le tasche

A Ronkh è nata la Mec Delta (mutuelle d’épargne et de crédit, o cornoperativa di risparmio e credito) del delta del fiume. Nel grigiore generale sorprende il rosso di due trattori e il giallo di un’enorme mieti trebbia parcheggiati fuori da una costruzione. Non ci si aspetterebbe tanta tecnologia.
All’interno ci accoglie un giovane alto e magro, dalla parlata colta. Mohamedine Diop è originario di Ronkh ed è il principale ideatore e motore del sistema di credito sperimentato. Anche lui è cresciuto nell’Asescaw ed è ora il direttore generale della Mec Delta.
«La Mec Delta è il prolungamento dell’esperienza contadina nata in villaggio. L’Asescaw ha giocato un ruolo importante nella sua creazione e molti dirigenti di un’istituzione lo sono anche dell’altra. Questo fa sì che le due entità abbiano perfetta concordanza di vedute.
Noi vogliamo materializzare la visione di finanziamento agricolo dell’Asescaw. E questo lo facciamo nell’autonomia totale» racconta Mohamedine ostentando grande sicurezza. 
L’idea dell’organizzazione contadina parte da bisogni concreti dei propri aderenti. Concimi e sementi di qualità al momento giusto, servizi agricoli meccanizzati di buon livello e con tempistiche adeguate, credito per le attrezzature ma anche per la casa.
Accompagnamento e formazioni di vario tipo, oltre che su tecniche di produzione, sulla trasformazione, conservazione e commercializzazione del prodotto. Ma anche la possibilità di mettere al sicuro i risparmi.

Un finanziamento con
La famiglia al centro

«L’opzione strategica scelta è quella di centrare tutto sulla famiglia, giocando sulla complementarietà dei diversi servizi offerti.
Importante è mettere il produttore nelle condizioni ottimali, affinché possa lavorare bene e avere il miglior raccolto possibile».
Mohamedine ci spiega l’originalità del sistema di finanziamento.
«Abbiamo scelto di lavorare nell’agricoltura, perché la maggior parte delle altre casse rurali non vogliono finanziarla a causa dei forti rischi. La nostra base è costituita di produttori agricoli».
I due schemi di finanziamento erano in ballottaggio. La banca seguiva il suo: prestare i soldi e poi tentare di farseli rimborsare.
L’Asescaw ha denigrato quel sistema, perché crea molti problemi, e ha trovato un nuovo schema di credito che sposa la realtà socio-culturale.
«La nostra visione è che i produttori non hanno bisogno di soldi ma di servizi. Facciamo tutto in natura e in prestazioni».
L’altro anello fondamentale della catena è la Delta agricoltura solidarietà (Deltagrisol), una cosiddetta «centrale di acquisto e foitura di servizi agricoli». La Deltagrisol funziona come negozio di tutto ciò di cui il contadino ha bisogno per coltivare (concimi, sementi selezionate, materiali), e allo stesso tempo fornisce servizi agricoli meccanizzati (dissodare la terra, sistemazione dei canali di irrigazione, ecc.). La terza, importante funzione, è quella di fornire un servizio commerciale, ovvero aiutare il produttore a vendere parte del raccolto.

Tutto in natura

La famiglia che ha bisogno di un prestito si rivolge alla Mec Delta. Questa verifica se ci sono le condizioni per il finanziamento (lo stato delle parcelle coltivate dai richiedenti, l’accesso all’acqua, e altri parametri). Se l’indagine è positiva, inoltra una richiesta di materiali e prestazioni di servizio alla Deltagrisol e ne paga la fattura. I tecnici delle due strutture seguono il produttore nelle varie fasi (anche i concimi e i prodotti, così come le prestazioni, saranno foiti nei momenti opportuni).
Una volta realizzato il raccolto, il contadino rimborserà la Mec Delta in natura (ad esempio sacchi di riso valutati a un prezzo equo fissato tra le parti).
In questo schema la famiglia contadina non è sola, ma fa parte di un gruppo (Foyer) che a sua volta è membro di un’organizzazione più vasta. Quest’ultima, oltre a fornire formazione tecnica e gestionale ai suoi membri, è una sorta di garante per il buon funzionamento del meccanismo.
Si tratta di una forma di economia comunitaria, studiata dal professor Enrico Luzzati dell’Univer­sità di Torino (del quale pubblichiamo un contributo in questo dossier), che è tra gli ideatori di questo modello chiamato «Distretto cornoperativo comunitario».
«Le forme di scambio economico più utilizzate nella società agricola del Walo sono sempre state lo scambio, con il riso come prodotto di base o di conversione, per passare da una merce a un’altra – spiega Mohamedine – un contadino che ha un credito con la sua cornoperativa capisce molto meglio: “rimborserai 20 sacchi di riso” piuttosto che una somma di denaro».
Si evitano all’agricoltore due passaggi per lui complessi. Primo: il fatto che si ritrovi con una certa somma di denaro e debba procurarsi sementi di qualità, concimi, ecc. al momento giusto. Secondo: la «trasformazione» della produzione agricola in contanti, per poter rimborsare.

Chi garantisce il prestito?

«Pensiamo sia importante, in ambito rurale, che lo schema di finanziamento non chieda garanzie solide. Perché la gente non le ha, e noi non abbiamo sempre gli strumenti che occorrono per rifarci sulle garanzie.
Non è una buona via, perché eliminerebbe la maggior parte della popolazione. Ma è anche vero che bisogna rendere sicuro il sistema di credito.
Grazie ad alcuni studi abbiamo visto che uno schema adeguato prende in carico i veri bisogni della popolazione. Intanto occorre scegliere i buoni produttori: non tutti sono agricoltori, allevatori o pescatori. Poi occorre andare al di là dell’identificazione delle persone, verificando piuttosto i siti di coltivazione».
La «vicinanza» fisica e culturale ai contadini, ha permesso agli ideatori del meccanismo di capire bene l’attività in tutti i suoi passaggi. Quando qualcuno chiede un credito agricolo a una banca, invece, questa non si interessa a dove il contadino lavorerà, che possono essere luoghi con poca acqua o non idonei a una buona produzione. Tutto questo aumenta il rischio di cattiva produzione e, in ultima analisi, di mancato rimborso.
Piccoli problemi di questo tipo che occorre conoscere per sapere se l’investimento sarà sicuro.
Spiega Mohamedine: «C’è poi la questione dell’acquisizione di concimi e sementi. La banca non si interessa a questo, non dà condizioni o indicazioni. Non è un suo problema. Per noi, invece questa fase partecipa a rendere sicuro il credito. Occorre fare in modo che tutti gli impedimenti del sistema di credito siano eliminati: che il produttore scelga un buon sito, con suolo sfruttabile, accesso all’acqua e che abbia  strumenti di lavoro in buono stato. Poi gli si assicura una foitura in concimi regolare, al momento giusto e non dopo. Tutte queste cose fanno in modo che un agricoltore riesca o meno ad avere una buona produzione».

Non è tutto oro …

Questa è la teoria, che spesso la Mec Delta riesce a mettere in pratica. Ma non sempre: «Abbiamo ricevuto i nostri crediti in ritardo (rispetto alla stagione della semina, ndr) – racconta un agricoltore del villaggio Saninth – così il raccolto è andato male».
Mancanza di liquidità al momento giusto o «mancanza di cornordinazione nella presentazione delle domande da parte dei membri del Foyer», come sostiene Mohamedine. Talvolta le difficoltà si sommano a catastrofi naturali, come nel 2005 quando un’invasione mai vista di uccelli divorò il riso dei coltivatori della valle del Senegal.
Alla fine del processo c’è il problema della «trasformazione» del riso raccolto in denaro.
I produttori sono normalmente poveri e hanno varie difficoltà a livello delle loro famiglie. Sono quindi tentati di vendere la produzione per risolvere tutti questi problemi. È questo il periodo in cui i commercianti vengono verso i contadini e gli offrono di acquistare la produzione a prezzi piuttosto bassi (in quel momento il mercato è pieno di riso appena raccolto).
«Ecco perché pensiamo che subito dopo la produzione la Mec Delta debba prendere il rischio di farsi rimborsare in natura. Questo per togliere un problema ai produttori e assicurare una commercializzazione secondo uno schema più rimunerativo, che permetta di massimizzare il reddito di chi coltiva e ridurre i rischi di rimborso» spiega il direttore generale.
Sono questi elementi che concorrono insieme alla protezione del credito, anche senza garanzie.
La filosofia della Mec Delta è che devono esserci dei buoni rendimenti, e questo si ottiene facendo in modo che i produttori siano messi in condizione di lavorare bene. Quando c’è un buon raccolto è sicuro che rimborseranno.

Credito «inculturato»

«Abbiamo pensato che in ambito rurale occorre uno schema che si integri nel sistema sociale  e i costumi della gente».
Il meccanismo sembra non soffrire di problemi. Ci sono i rischi che sono legati all’agricoltura nel senso generale, ovvero casi di calamità.
La frangia di popolazione più recettiva è anche quella più vulnerabile. Si tratta soprattutto di donne e famiglie a bassissimo reddito, che hanno accesso limitato alla terra e a mezzi di produzione e che da sempre sono escluse dalle altre istituzioni finanziarie. Questa gente ha visto nella Mec Delta un’opportunità di cambiare la propria vita.
Oggi la Mec Delta ha oltre 3.000 membri e finanzia più di 1.000 ettari di produzione. Circa 600 sono i crediti in corso. Per ottenere un prestito occorre infatti associarsi, aprire un conto presso la cassa e depositare un contributo.
Intanto i progetti per il futuro sono di espansione. Sono state aperte tre agenzie decentrate per essere ancora più vicini alla popolazione e altre due sono nei piani per il 2008. Attualmente la zona di intervento è il dipartimento di Dagana, ma presto si spingeran­no più a est in quello di Podor.
«Il contesto ci ha aiutato a convincere gli strati più poveri che è necessario un sistema più comunitario, solidale e adatto a portare risposte concrete ai bisogni della popolazione», ricorda il direttore generale Mohamedine Diop, con lo sguardo di chi è consapevole dell’importanza del­la propria missione. 

Di Marco Bello

Marco Bello




Sembrano percore, ma sono lupi

Il commento: economia o teologia?

Una nuova religione si è diffusa nel mondo globalizzato: è la religione del mercato. Ha i suoi officianti e i suoi fedeli. Ma soprattutto ha le sue vittime. Sempre di più, anche se non si può dire apertamente…

Lunedì di Pasqua, 24 marzo 2008. Dalla finestra del mio studio il panorama appare decisamente invernale, nonostante la primavera astronomica sia iniziata da tre giorni. Vedo precipitare dalle nubi raggrumate un misto di acqua e neve al punto da non distinguere se è l’acqua a nevicare o non sia la neve a piovere. Il che mi indigna. Ora la confusione ha infettato anche la meternorologia e il gioco del «qui-pro-quo» ha contaminato anche le identità delle stagioni. Dopo un inverno di secca, in cui le cime del Monte Bianco hanno registrato perfino gli otto gradi sopra lo zero, ora la primavera mi si presenta infreddolita e tutta bagnata di neve!

«NON PIOVE?
GOVERNO LADRO!»

Il detto popolare, espressione iniziale di una ignoranza diffusa, sedimentazione di quella pigrizia mentale propria di chi non vuol vedere, si presenta oggi come concentrato sapienziale di una coscienza altamente avvertita. Aggiornato alla nostra situazione si dovrebbe dire: «Non piove? Goveo ladro», là dove il «governo» non è l’amministrazione politica della cosa pubblica, bensì la gestione economica della umana comunità. Non contenti di aver desertificato la terra ora vogliono desertificare anche il cielo. Negli ultimi 30 anni sono scomparsi 600mila chilometri quadrati di foresta amazzonica brasiliana, una superficie equivalente a due volte quella dell’Italia. L’acqua potabile sarà una delle risorse naturali che più scarseggeranno in questo inizio del nuovo millennio. Il petrolio e il carbone si esauriranno verso la metà di questo secolo. Alla base di questo processo di saccheggio si nasconde una visione limitata della terra. La si considera unicamente ed esclusivamente come una riserva morta di risorse da sfruttare e non come qualcosa di vivo, la Pacha Mama degli indigeni o la Grande Madre degli antichi.
L’antica religione poneva l’uomo come custode del giardino, perché lo coltivasse e lo custodisse. La nuova religione impone l’uomo come padrone del mondo e la terra come oggetto di sfruttamento e merce di scambio.

IL DIO TOTALIZZANTE
DELL’ECONOMIA

Nell’editoriale di un piccolo ma grande libro edito nel 2000 dalla società cornoperativa editoriale L’Altrapagina: «Economia come Teologia?», si legge: «L’Economia contemporanea funziona come una teologia, ossia una visione del mondo complessiva che ha per chiave di volta la divinità. Mentre però nella teologia il divino impedisce al discorso di chiudersi, perché Dio è una dimensione insondabile, il dio del sistema economico imprigiona l’uomo in uno schema chiuso e totalizzante, poiché si tratta di un dio perverso».
Riccardo Petrella, autore assieme a Enrique Dussel e Enrico Chiavacci, si è addirittura divertito a utilizzare i simboli della teologia cristiana per dare una descrizione di questa nuova divinità: «Il capitale è il Padre che ama e giudica, l’impresa è il Figlio, cioè l’incarnazione del Padre, il mercato è lo Spirito che anima gli individui e li stimola alla competizione perché diano il meglio di se stessi e conquistino più ricchezza. Ma le analogie con l’universo teologico per Petrella non si fermano qui. Il vangelo della competitività, che ci viene indottrinato da tutti i pulpiti che contano, ha pure i suoi comandamenti, che si potrebbero riassumere nella triade: liberalizzazione, deregolamentazione, privatizzazione».

AVERE O ESSERE?
SI «È», SE SI «HA»

L’indottrinamento, in questo ultimo ventennio, è stato così pervasivo e persuasivo che non esistono più terreni vergini. Il «pensiero unico» ovvero il monoteismo della merce, per dirla con l’espressione cara a Giancarlo Zizola, ha contaminato non solo il mondo della produzione e delle sue opere ma anche il mondo del pensiero e dei suoi sogni.
Da ogni pulpito, ormai, con l’euforia propria dei neofiti, i profeti del libero mercato ci ripetono in continuazione che il mercato è economicamente molto efficace. Il fondamentalismo liberista della globalizzazione ridefinisce ogni forma di  vita in termini di merce, la società in termini economici e il mercato come mezzo e fine dell’iniziativa umana. Per essi il mercato è l’unico strumento adatto alla distribuzione di cibo, acqua, salute, istruzione e altre necessità vitali. Il mercato diventa l’unico criterio organizzativo e amministrativo e si trasforma in metro della nostra umanità al punto di rendere identitario ciò che alla fine degli anni Sessanta Erich Fromm poneva in termini alternativi: Essere o Avere. Oggi si è se si ha!
Questo è il nuovo dogma e la mercantilizzazione del tutto il suo corollario.

IL CAPITALE
SENZA LIMITI E VINCOLI

Gli effetti sono così devastanti da qualificare come terrorista per antonomasia il mercato stesso, così come Pasquale Gentili sul notiziario di Radié Resch n. 79: «Chi incute terrore, oggi, si chiama mercato… e questi si maschera dietro svariati personaggi, culture e anche religioni! È un potentissimo terrorista, senza volto, che si trova ovunque, come Dio, e che, come Dio, crede di essere eterno. La sua lunghissima fedina penale lo rende temibile. Non ha fatto altro che rubare cibo, ammazzare posti di lavoro, sequestrare interi paesi e fabbricare guerre. Per vendere le sue guerre semina paure! Compie attentati che non compaiono sui giornali: ogni minuto uccide di fame 12 bambini».
Insomma il disastro è totale, con l’aggravante di una impotenza assoluta di intervento da parte della politica e perfino del diritto.
Ci si chiede come si sia potuto arrivare a tanto, dopo le grandi conquiste che hanno accompagnato la nascita dello «Stato sociale keynesiano» all’inizio dello scorso secolo.
A me sembra che la causa principale vada ricercata già in quella antica tradizione liberale che è propria dell’Occidente, secondo la quale l’unico potere che è stato tematizzato come oggetto di limiti e vincoli (si pensi allo «Stato di diritto») è il potere pubblico, mentre invece il potere privato è stato confuso, per una vecchia operazione ideologica, con la libertà. Il potere economico, il potere del capitale, il potere della libera iniziativa economica, i diritti civili stessi sono stati puramente e semplicemente identificati con la libertà.

NEOCOLONIZZAZIONE
E DELOCALIZZAZIONE

Su questo, che potremmo ritenere l’underground «culturale» si è venuto poi ad innestare il fenomeno della cosiddetta «globalizzazione» e che io più propriamente chiamerei «neocolonizzazione».
Con la globalizzazione, dunque, si è imposta come prassi normale la «delocalizzazione» in forza della quale le imprese scelgono l’ordinamento loro più conveniente. In tal modo dislocano le loro produzioni nei paesi peggiori dal punto di vista della tutela dei diritti, paesi in cui non esistono garanzie dal lavoro, in cui i salari sono bassissimi, in cui si può inquinare senza nessun limite, in cui si possono corrompere i governi, in cui praticamente si ha mano libera. Si veda il caso della Cina, là dove i salari sono addirittura 40 volte più bassi di quelli della Germania. Le ricadute sulle nostre società sono quanto mai devastanti: disoccupazione, precarizzazione del lavoro, abbassamento dei salari  e via decadendo…
Gli osservatori più acuti, una volta liberisti ad oltranza, di fronte a questo ritorno boomerang dagli effetti destabilizzanti, incominciano a parlare, timidamente, della necessità che gli stati, per i problemi nazionali, ed un ente sovranazionale, per i problemi inteazionali, riprendano il loro ruolo di «garanti» in un movimento globale non più gestibile.
La «mano provvidenziale» di cui parlava Smith è ormai scomparsa dall’economia. Cionono­stan­te tutto continua come se nulla fosse. Nell’immaginario col­lettivo, cui fa da supporto anche una certa politica sedicente di sinistra, c’è bisogno ancora di più mercato, più concorrenza, più crescita.
«Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro son lupi rapaci» (Mt. 7,15). «Allora se qualcuno vi dirà: Ecco, il Cristo è qui, o: è là, non ci credete. Sorgeranno infatti falsi cristi e falsi profeti e faranno grandi portenti e miracoli…» (Mt. 24,23-24).
A qualcuno queste citazioni potrebbero sembrare strumentali, se non blasfeme. Non ci si scandalizzi. Se l’autore dell’Apo­calisse ha potuto individuare nell’Impero Romano la figura dell’anticristo, non spetta forse a noi, cristiani del terzo secolo, dare nome e cognome ai novelli falsi profeti?
E non spetta ancora a noi dare voce e carne e sangue a quel Sogno di Dio perché non resti più sogno? Sogno di una umanità fratea e compartecipe, includente e coinvolgente, pacifica e pacificatrice.

LA GRATUITÀ
DELLA PIOGGIA (PER ORA)

Fuori, al di là dei vetri appannati dall’umidità, il sole sembra forzare la primavera e la pioggia, non più equivoca, sembra ora più autentica. Lo scroscio ritmico si fa eco di danza e modula la sua musica sulle note profetiche di un monaco che, sembra, la Cia ha voluto zittire: «Lasciatemi dire una cosa, prima che la pioggia diventi una merce che “loro” potranno controllare e distribuire a pagamento.
«“Loro” sono quelli che non riescono a capire che la pioggia è una festa e non apprezzano la sua gratuità, pensando che ciò che non ha prezzo non ha valore, che ciò che non può essere venduto non ha consistenza, per cui l’unico modo per rendere reale una cosa è metterla sul mercato. Verrà il giorno in cui vi venderanno anche la vostra pioggia. Per il momento è ancora gratuita, e lascio che mi bagni. Celebro la sua gratuità e la sua illogicità».
Il monaco è Thomas Merton. Anno del Signore 1965. 

Di Aldo Antonelli

Aldo Antonelli




Vivere da consumatore critico si può

Le pratiche dell’«altra» economia

Le botteghe del commercio equo e solidale, i gruppi dei bilanci di giustizia, quelli di acquisto solidale, le Mag, la Banca Etica, il turismo responsabile. Sono molte le risposte che si possono dare per combattere in prima persona contro un sistema ingiusto, che perpetua le diseguaglianze e distrugge l’ambiente.

L’attuale sistema economico presenta degli enormi problemi per quanto riguarda la giustizia (intesa come ripartizione tra gli uomini di quanto serve per vivere) e l’ambiente, ovvero la capacità di questo modello di produzione e consumo di durare nel tempo senza minare le basi naturali che lo sostengono.
Come se non bastasse, questo stesso sistema fa sentire i suoi effetti negativi (si chiamano inquinamento, malattia, stress, precarietà) anche sulle popolazioni del Nord, da esso avvantaggiate. Questo ci porta a chiederci quale sia l’efficacia del sistema rispetto al nostro desiderio di condurre una vita sana, serena e densa di relazioni.
Queste problematiche di giustizia, natura, benessere e senso, poste dal sistema economico attuale, da tempo hanno prodotto una ricerca di pratiche che possono fornire delle risposte, anche se parziali.

LE DOMANDE
DEI CONSUMATORI CRITICI

In Italia, le esperienze di costruzione di un’altra economia iniziano negli anni ‘80 con il commercio equo e solidale e la finanza etica. Il primo trae origine dalle condizioni disperate dei contadini del Sud del mondo, costretti a vendere i loro prodotti ad un prezzo bassissimo senza potersi opporre allo sfruttamento generato da una lunga catena di intermediazione. Il commercio equo e solidale cerca allora di creare dei canali alternativi per l’importazione e la vendita dei prodotti del Sud del mondo, instaurando relazioni dirette e proponendo al consumatore un utilizzo critico del proprio potere d’acquisto, secondo una logica di relazione diretta e di presa di coscienza circa l’utilizzo del proprio denaro. La finanza etica applica alla gestione del risparmio queste stesse logiche, ovvero il rifiuto da parte del risparmiatore di essere un ingranaggio all’interno di un meccanismo di sfruttamento e la ricerca di un canale alternativo in cui i propri risparmi possano servire a sostenere progetti con uno scopo sociale, ambientale o culturale.
Dopo il commercio e la finanza, gli anni ‘90 vedono la nascita delle attività legate al consumo e agli stili di vita. Nascono «i gruppi dei bilanci di giustizia», «i gruppi di acquisto solidali» e si diffondono i concetti legati al potere del consumatore e al consumo critico, anche attraverso la pubblicazione della «Guida al consumo critico» nel 1996.
I consumatori critici sono persone che, quando vanno a fare la spesa, si pongono un sacco di domande sui prodotti che stanno per acquistare. Si chiedono in quali condizioni ambientali e di lavoro è stato realizzato un prodotto, chi e cosa sta dietro a quello che stanno per acquistare. L’idea è quella di poter influenzare il mercato inserendo nella domanda le richieste di giustizia, ambiente, benessere e senso. I gruppi dei bilanci di giustizia si chiedono come orientare il loro bilancio familiare per aumentare sia il livello di giustizia che quello di benessere.
I gruppi di acquisto solidale (Gas, in sigla) invece sono gruppi di consumatori che si ritrovano per acquistare insieme, cercando dei piccoli produttori locali e rispettosi dell’ambiente da cui rifoirsi direttamente. È lo stesso concetto del commercio equo e solidale applicato ai prodotti che vengono dal nostro paese, considerando che oramai anche i nostri piccoli contadini sono a rischio di estinzione a causa dei meccanismi della grande distribuzione.
Questi stessi principi si applicano anche al campo del turismo, e troviamo allora «il turismo responsabile»‚ che a partire dalla valutazione dei danni ambientali, economici e sociali generati dal turismo di massa verso i luoghi di destinazione propone un approccio diverso, costruendo nel contempo vere occasioni di incontro tra culture.
Oltre a questi settori, incontriamo esperienze di un’altra idea di economia in tutti i settori dell’attività economica, dai piccoli produttori biologici che coltivano senza l’utilizzo dei pesticidi, alle cornoperative di produzione e servizi che realizzano i beni di cui abbiamo bisogno nel rispetto dell’ambiente e delle condizioni di lavoro all’interno di strutture a conduzione democratica.
Tutte queste esperienze, nate perlopiù negli ultimi 30 anni a partire da piccoli gruppi, oggi sono in forte crescita e si stanno diffondendo nell’opinione pubblica. In Italia esistono circa 500 botteghe del commercio equo e solidale (Botteghe del Mondo), ed i prodotti del commercio equo e solidale si trovano anche all’interno della grande distribuzione. Le Mag, cornoperative nate per la gestione etica del risparmio, sono 6 (Torino, Milano, Reggio Emilia, Verona, Venezia, Roma) e dalla loro esperienza è nata «Banca Etica». I gruppi d’acquisto solidale censiti sono circa 400, oltre a molti altri informali. Gruppi di bilanci di giustizia si trovano in diverse città italiane e le organizzazioni che si occupano di turismo responsabile sono un centinaio.
Inoltre, le critiche alle regole del commercio mondiale e ai sistemi di produzione che non rispettano le condizioni di lavoro e l’ambiente hanno conquistato una parte dell’opinione pubblica; i consumatori odiei si dimostrano sempre più attenti agli aspetti di sostenibilità ambientale e sociale, e le quote dei prodotti biologici, equo-solidali, tipici o ecologici continuano a crescere a ritmi elevati e stanno diventando interessanti per il mercato.
Tutte queste esperienze, insieme ad altre come le banche del tempo e le reti di scambio locale, rappresentano forme di economia che considerano l’attività economica come uno strumento per il soddisfacimento dei propri bisogni e come occasione di relazione tra le persone. Nel mondo le esperienze di questo tipo sono molto diverse; per fare qualche esempio significativo potremmo, ad esempio, citare in Argentina i «club del baratto» (trueques) che fino ad un paio di anni fa coinvolgevano milioni di persone, oppure le fabbriche «recuperate» in cui i lavoratori rilevano un’azienda dal proprietario intenzionato a chiuderla per continuare l’attività secondo forme autogestite.

LE CARATTERISTICHE
DELL’ECONOMIA SOLIDALE

Pur nella evidente diversità, tra queste esperienze sta nascendo la consapevolezza di trattarsi di forme economiche che vogliono applicare la collaborazione alle diverse attività umane: produzione, commercio, servizi, finanza, consumo, etc. Si sta quindi affermando il termine «economia solidale» per rappresentarle, anche se non si può trattare di una definizione precisa in quanto, come abbiamo visto, si riferisce ad esperienze molto varie.
Le caratteristiche dell’economia solidale sono state sintetizzate nella «Carta per la rete italiana di economia solidale»:
• nuove relazioni tra i soggetti economici basate sui principi di reciprocità e cooperazione;
•giustizia e rispetto delle persone (condizioni di lavoro, salute, formazione, inclusione sociale, garanzia dei diritti essenziali);
•rispetto dell’ambiente (sostenibilità ecologica);
•partecipazione democratica;
•disponibilità a entrare in rapporto con il territorio (partecipazione al «progetto locale»);
•disponibilità a entrare in relazione con le altre realtà dell’economia solidale condividendo un percorso comune;
•impiego degli utili per scopi di utilità sociale.

LE RETI
DELL’ECONOMIA SOLIDALE

Questi principi vengono applicati, con caratteristiche diverse, nei vari settori dell’economia. Si tratta quindi di esperienze che stanno mostrando nel concreto come un modo diverso di concepire l’economia sia non solo possibile ma già in atto.
Se consideriamo queste esperienze, possiamo vedere il loro insieme come un progetto di trasformazione dell’economia che interviene contemporaneamente su più livelli: il livello dei comportamenti personali, il livello delle organizzazioni di produzione o di consumo, il livello dei luoghi e quello delle reti economiche. Questi diversi livelli si sostengono e rafforzano l’uno con l’altro nell’indirizzare la trasformazione dell’economia verso il benessere di tutti.
In questa trasformazione, la strategia che si sta sperimentando per intrecciare i diversi livelli è la costruzione di reti, ovvero circuiti economici costruiti tra le diverse realtà di economia solidale, integrando il consumo, la distribuzione, la produzione ed i servizi. In Italia questi esperimenti prendono avvio con la costruzione dei distretti di economia solidale, ovvero di reti locali in cui, a partire dalle esperienze di economia solidale del territorio, si cerca di attivare e sostenere circuiti economici per rafforzare queste realtà e offrire ai consumatori critici una gamma più ampia di prodotti e servizi solidali.
La realizzazione di reti locali di questo tipo comporta numerosi vantaggi: da una parte porta ad attivare legami di fiducia sul territorio, dall’altra a chiudere localmente i cicli di produzione e consumo diminuendo l’impatto sull’ambiente. Inoltre, aumenta il livello di conoscenza tra le diverse realtà, ponendo le basi per poter esprimere una progettualità locale per la trasformazione del territorio.
In Italia, in diversi luoghi si sta ragionando sulla ipotesi dei distretti di economia solidale; in particolare, si stanno avviando delle sperimentazioni a Roma, in Brianza, a Como, nelle Marche, in Trentino e a Verona. Questi esperimenti, a partire dal locale, portano avanti dei progetti per far conoscere le realtà di economia solidale del territorio e procurare beni e servizi integrando gli attori locali lungo tutta la filiera di produzione, distribuzione e consumo. Mettendo insieme le diverse esperienze di economia solidale nei vari settori l’esperienza dei distretti prova a sperimentare nella pratica come potrebbe funzionare un altro sistema economico, in cui l’economia è uno strumento per il benessere di tutti.
L’economia sta cambiando, e per ognuno di noi c’è la possibilità di prendere parte a questa trasformazione. Dobbiamo solo decidere il campo in cui vogliamo operare: come consumatori, imprenditori, educatori, amministratori, produttori, commercianti, etc. Per ognuno di noi c’è la possibilità di portare un contributo. 

Di Andrea Saroldi

Andrea Saroldi




Chi ci sta dietro alla voce del padrone?

Analisi della situazione (2)

Il mondo è in mano alle multinazionali? A guardare alle cifre parrebbe proprio di sì. Intanto, però, gli stati con più liquidità entrano nell’economia mondiale usando gli strumenti (ambigui) del sistema finanziario che già tanti danni ha prodotto e continua a produrre.

All’inizio di questo millennio 51 fra le prime 100 economie mondiali sono multinazionali, e solo 49 stati. Som­mando tra loro i prodotti interni lordi di tutti gli stati esistenti ad eccezione dei 9 più importanti (Italia compresa, almeno per ora) si ottiene una cifra inferiore al valore aggregato delle vendite annuali delle prime 200 società del mondo.
Il fatturato di Wal Mart, il colosso dei supermercati Usa, supera da solo il Pil di 161 stati nel mondo. I fatturati di Daimler Chrysler, General Motors e Ford sono superiori al prodotto interno lordo, rispettivamente, di Norvegia, Danimarca e Sudafrica. Non sorprende nemmeno più sapere che la capitalizzazione della Borsa cinese abbia superato il Pil del paese.
Ecco i padroni del mondo: le corporations vanno considerate i veri protagonisti della scena economica contemporanea. Domina­no in molti casi le entità statuali ai cui ordinamenti sarebbero in teoria assoggettate, e riflettono la divisione del mondo tra ricchi e poveri: il 93% delle prime 200 società al mondo appartiene infatti solo a 7 paesi.
I grandi gruppi inteazionali sono un sistema di scambio parallelo, in grado di porsi al di fuori o al di sopra, sia del mercato che della legge.

POSSEDERE È POTERE

Possedere è potere. A livello mondiale le imprese si contano a milioni, per la maggior parte di piccole dimensioni, spesso possedute da privati più o meno facoltosi. In Italia stessa, il 98% del tessuto imprenditoriale è costituito da piccole e medie imprese che in termini di fatturato non superano i 50 milioni di euro all’anno mentre da un punto di vista occupazionale non vanno oltre i 250 addetti. Ma sul brulicare di tante formichuzze si stende l’ombra di pochi formiconi con corpi mastodontici.
Secondo gli ultimi dati, le multinazionali sono 78.000 e controllano 780.000 società disseminate in tutto il globo per un totale di circa 73 milioni di dipendenti. Da un punto di vista produttivo contribuiscono solo al 10% del prodotto lordo mondiale, ma controllano il 60% dei flussi commerciali mondiali.  Quanto ai profitti, le prime 500 da sole, nel 2006 hanno incassato 1.529 miliardi di dollari, pari al 3% del prodotto lordo mondiale.
A seconda dell’attività svolta, dietro ad ogni multinazionale ci sono palazzi, mezzi di trasporto, macchinari, fabbriche, magazzini, miniere, campi. Mezzi di produzione che costituiscono il loro capitale. Fra le imprese industriali, quella con capitale più elevato è Toyota con 276 miliardi di dollari. In Italia la più grande è Telecom con 118 miliardi seguita dall’Eni con 116 miliardi di dollari. Molto più in là viene la Fiat con 76 miliardi di dollari e Finmeccanica con 31 miliardi di dollari. Delle quattro imprese nominate, l’unica saldamente in mano ad una famiglia è la Fiat, dove gli Agnelli continuano a detenere il 30% del capitale. Ma il secondo azionista è una banca: Unicredito Italiano, con una quota del 5,2%. Il terzo azionista è di nuovo una banca, la Barclays Global Investors, una banca d’investimento che non interviene a nome proprio ma di clienti che le hanno affidato dei soldi da investire. Il quarto azionista è Fmr, un fondo comune di investimento che raccoglie denaro tramite il versamento di tante piccole quote.
Per quanto diverse per struttura e funzioni, Unicredito, Barclays e Fmr hanno in comune di non essere persone fisiche, ma istituzioni finanziarie che gestiscono capitale collettivo ottenuto in affidamento da migliaia, se non milioni di persone. L’emergere di colossi che gestiscono capitale collettivo, rastrellato in nome delle più varie funzioni, forse è la vera novità degli ultimi cinquanta anni. Strategie collettiviste in ambito capitalista si confondono con strategie capitaliste in ambito collettivista a dimostrare che il potere  usa le ideologie come stendardi al vento per avvolgere i popoli e insalamarli.
A livello mondiale, le strutture di investimento che raccolgono la maggior quantità di capitale collettivo sono le banche d’investimento, i fondi comuni, le assicurazioni, ma anche i fondi pensione. Il che fa capire come la decisione, attuata anche in Italia, di demolire la previdenza pubblica risponda anche alla logica di fare un regalo alle banche e alle assicurazioni che gestiscono i fondi pensione e confondere i lavoratori.
In base ad uno studio realizzato in Inghilterra nel luglio 2007, è emerso che solo il 13% delle azioni quotate alla borsa di Londra, un valore di 2.700 miliardi di euro ripartito fra 1.139 società, appartiene a individui in carne ed ossa. Il resto è posseduto da istituzioni. Più precisamente 41% da non meglio identificati investitori esteri, 15% assicurazioni, 13% fondi pensione, 10% fondi di investimento, 4% fiduciarie, 3% banche, 1% istituzioni caritatevoli.

CONTROLLATE E 
CONTROLLANTI

In Italia, l’istituzione finanziaria più potente è Assicurazioni Generali. Nata come società assicuratrice, oggi è anche banca, fondo pensione e intermediario finanziario. Nel 2006 ha fatturato 102 miliardi di dollari ed ha realizzato profitti per 3 miliardi di dollari, collocandosi al secondo posto fra le imprese italiane (dopo Eni), al terzo posto nella graduatoria mondiale delle assicurazioni sulla vita (dopo Ing e Axa) e al 30° posto nella graduatoria mondiale di tutte le multinazionali. Il suo principale azionista è Mediobanca con una quota del 15,6%.
Altri proprietari di rilievo sono Unicredito, Banca d’Italia, Banca Intesa San Paolo con quote fra il 2 e il 5%. Nel complesso i sette maggiori azionisti detengono il 34% del capitale, mentre il restante 66% è definito flottante, ossia ampiamente frantumato e passato frequentemente di mano. Generali a sua volta possiede oltre il 51% di numerose società assicuratrici e bancarie sia italiane che estere (Ina, Toro, Alleanza, Banca Generali, Banca del Gottardo) e detiene quote di minoranza in una miriade di società italiane ed estere, fra cui il Gruppo editoriale l’Espresso, Capitalia, Bnl, Lottomatica, Telecom. Incredibile, ma vero, Generali possiede anche il 2% di Mediobanca, suo principale azionista e il 7,5 di Intesa San Paolo, altro azionista di rilievo. In conclusione controllate e controllanti si possiedono a vicenda in un groviglio inestricabile che forma una gigantesca cupola di comando dei principali gangli produttivi e finanziari del Paese.
Eni, prima impresa italiana, sfugge alle scalate degli investitori istituzionali (così si chiamano le grandi istituzioni finanziarie) perché la sua quota di maggioranza è saldamente in mano allo Stato. Il ruolo dello Stato nella proprietà aziendale ha subito altee vicende nel corso della storia ed è cambiato di continuo in base dell’andamento degli interessi economici che poi determinano le correnti politiche. Nel secolo scorso, quando il sistema uscì con le ossa rotte dalla crisi del ventinove, in tutta Europa gli stati vennero implorati di acquistare quote importanti di società ridotte al lastrico assieme alle banche che le possedevano. In Italia nacque l’IRI, un fondo pubblico che si ritrovò proprietario di imprese che andavano dai panettoni ai pelati, dalle armi alle automobili. Poi, a metà degli anni, Ottanta il vento cambiò. In base al pensiero liberista lo Stato non doveva avere più ruolo in economia e non solo doveva disfarsi di ogni proprietà industriale, ma doveva abbandonare perfino i servizi pubblici come la sanità e l’istruzione. La vendita di Alitalia rappresenta uno degli ultimi atti del processo di sganciamento dello Stato italiano dalle partecipazioni industriali. Ciò non di meno continua ad essere il principale azionista di Eni, Finmeccanica, Fincantieri e al momento non si intravedono segnali che abbia intenzione di sbarazzarsi di loro.

IL RITORNO 
DELLO STATO AZIONISTA

A dire il vero si ha la sensazione che un nuovo vento stia per spirare perché, in vari paesi del mondo, lo stato si sta di nuovo imponendo come azionista importante.
Sta succedendo in Norvegia, Singapore, Kuwait, ma anche Russia e Cina. I governi di questi paesi si ritrovano fra le mani delle fortune accumulate per le ragioni più varie. Emirati Arabi, Kuwait, Arabia Saudita, Russia, grazie ai proventi del gas e del petrolio, la Norvegia grazie ad un fondo pensione pubblico, la Cina grazie alle riserve di valuta straniera accumulate tramite l’enorme avanzo commerciale. Nell’insieme tali fondi, definiti fondi sovrani, ammontano a 2.000 miliardi di dollari, un valore ancora modesto, ma suscitano grande preoccupazione non solo perché crescono rapidamente (entro il 2012 potrebbero raggiungere i 12.000 miliardi di dollari), ma soprattutto perché nessuno vede di buon occhio che le proprie industrie nazionali, specie quelle strategiche, possano finire sotto il controllo di uno stato straniero.
Ad esempio, è del dicembre 2007 la notizia che il 10% della banca americana Morgan Stanley è stato comprato dal fondo sovrano cinese China Investment Corporation. Cinque miliardi di dollari che lo stato cinese ha preferito utilizzare per un’operazione di potere piuttosto che per migliorare le condizioni di vita della propria gente. 

Di Pietro Raitano e redazione «Altraeconomia»

Pietro Raitano