Salvador de Bahia… e la fame continua
dei bassifondi; in periferia i complessi petrolchimici sfruttano i poveri indifesi; nell’interno della regione, i latifondisti sono in lotta con i senza terra… In mezzo la solidarietà di laici
e missionari, impegnati accanto agli emarginati, per aiutarli a difendere la propria dignità.
In un viaggio nello stato brasiliano di Bahia, alla ricerca di progetti sociali e di persone impegnate nella solidarietà, mi sono fermato a Salvador, la capitale di Bahia, poi a Monte Gordo, un piccolo centro situato sul litorale, a 50 km dalla capitale, e infine a Esplanada, una cittadina che dista circa 100 km dalla costa, praticamente alle porte del grande Sertão.
Mentre nei quartieri degradati di Salvador operano insieme laici e religiosi, negli altri due luoghi lavorano due missionari marchigiani, padre Luis (don Luigi Carrescia) e frei Chico (frate Francesco Carloni). Il primo, dopo 10 anni di servizio in un’altra città, Camaçari, si è definitivamente stanziato a Monte Gordo; l’altro, ormai da 30 anni in Brasile, porta avanti la presenza dei cappuccini, giunti in questo pezzo di Bahia all’inizio del secolo scorso.
SALVADOR BRILLA
Rita lavora come assistente sociale nella casa di donna Conceição, zia Conça per gli amici, una simpatica bahiana che 12 anni fa si è messa in testa di fondare un’associazione controcorrente. All’ingresso c’è un’insegna sulla quale si legge: «Preconcetti no. Solidarietà sì». La casa accoglie bambini orfani, a rischio di emarginazione, perché almeno uno dei loro genitori è morto di Aids e per tale motivo gli altri asili non li accettano.
Zia Conça invece se li prende tranquillamente con sé. Qui i bambini possono giocare, iniziare a esercitarsi con l’alfabeto portoghese e con la matematica, mangiano tre volte al giorno, fanno il bagno e sono seguiti quotidianamente da un’infermiera.
Alla porta di zia Conça bussano anche altri abitanti del quartiere, per chiedere un pasto, un consiglio, un aiuto scolastico per il figlio o per un controllo medico. I sieropositivi sono molti, condannati dall’indifferenza a un triste destino.
Ciononostante, oggi è un giorno speciale: c’è da festeggiare il compleanno di un gruppo di persone. Potrebbe essere l’ultimo e per questo diventa importante stare insieme.
Rita e le altre ragazze della casa di zia Conça hanno preparato un dolce enorme al cioccolato con le fragole e tante caraffe di succhi di frutta. Poi verso le quattro del pomeriggio gli adulti arrivano all’asilo a riprendersi i bambini. Nessuno di loro ha un lavoro fisso, sono tutti specializzati nell’arte dell’arrangiarsi. Vivono di piccoli traffici, di prostituzione, di lavoretti per rimanere a galla nel mare dell’esclusione sociale che taglia in due la città: da un lato i centri commerciali e finanziari e dall’altro le catapecchie.
Se si percorre l’Avenida Antonio Carlos Magalhães, il boss di Bahia, ci si specchia davanti alle porte scorrevoli delle banche, degli alberghi inteazionali o degli specchietti delle auto di lusso, parcheggiate davanti ai palazzi, con il custode che annaffia le piantine della reception; poi all’improvviso, superato un terrapieno, giù nello sprofondo che non si vede mai, pulsa una favela, un altro mondo.
Qui la sanità non arriva; la polizia ci entra solo per dare la caccia a qualche ladro di polli; la scuola non funziona, l’amministrazione pubblica si dimentica volentieri di registrare i nuovi nati: può capitare che un bimbo cresca senza che nessuno lo sappia, vivendo per strada, al di fuori di qualsiasi regola civile.
I meninos de rua, con la velocità di un proiettile, diventano grandi, bruciano tutto e sono consapevoli di andare incontro a una parabola drammatica, fatta di malattie e di violenza: te lo raccontano con il sorriso.
Una volta alla settimana zia Conça li carica su due pulmini e li porta a fare una gita al mare o in qualche parco dove mangiano una grossa salsiccia in umido, fanno la doccia e si divertono in pace, senza masticare il grigio del marciapiede.
I fondi per aiutarli ad abbandonare la strada sono scarsissimi, così si fa quel che si può. In questa lotta contro le ingiustizie, in mancanza di un appoggio governativo, a tappare i buchi sono impegnate sia le suore terziarie francescane, un gruppetto di religiose indiane che, con i finanziamenti del progetto di adozione a distanza Agata-Smeralda, offrono istruzione ai tanti semianalfabeti e un po’ di medicine, sia le parrocchie di periferia che attraverso la pastorale denunciano e poi tentano di risolvere i casi di denutrizione, di droga e alcolismo, di sfruttamento sessuale e di emarginazione.
A ridosso delle elezioni si fa vivo qualche politico, che regala caramelle e distribuisce scarpe e protesi dentarie in cambio del voto.
E non solo: ovviamente fa anche molte promesse. Per esempio, di concedere i regolari documenti catastali a tutte le famiglie che hanno una specie di abitazione ma non sono ancora registrati. Poi succede che, una volta eletto, ci mette un minuto a dimenticare tutto.
Intanto però la favela aumenta con nuovi arrivi dalle campagne di sbandati in cerca di miglior sorte e un’altra ragazzina partorisce il primo di una lunga serie di bocche da sfamare. E come la fame anche la notte continua.
Quando scende il buio da lontano la favela arroccata su una collinetta sembra un presepe di cartapesta, avvolto in un vestito rigato di polvere dorata. Ma la distanza inganna. Fuori da quel tremolio di lampadine, intorno ai semafori, sotto i grattacieli, i fari delle macchine illuminano il numero da giocoliere di un ragazzino che, con il viso dipinto di bianco, fa ruotare tre bastoni infuocati, dando vita a un malabaris e al tintinnio di due spiccioli di elemosina sotto gli uffici delle multinazionali.
Davanti al porto, si accendono le luci sulla Bahia de todos los santos e la mano di un turista dirige i riflettori sul lungomare, dove i viados aspettano chi li porti via. Una signora frigge una manciata di fagioli nell’olio di dendê e l’odore dolciastro che ne viene fuori si spalma sulla città, come una crema su un corpo addormentato e infilzato da aghi, le cui capocchie emettono flebili luccichii.
Rita va a letto sorridente; domani lo sciopero degli autobus è stato cancellato.
I PESCI DI MONTE GORDO
Qui a Monte Gordo, periferia estrema di Camaçari, centro industriale famoso per il petrolchimico, padre Luis si è trasferito un anno e mezzo fa, assumendo la guida della giovane parrocchia di São Bento (San Benedetto) che conta circa 18 piccole chiese, molto distanti tra loro e per questo c’è sempre da correre, con la valigetta delle ostie e del vino sempre a portata di mano.
In una chiesa ricavata in un garage, con l’acqua piovana che inonda la grondaia malconcia, attorno a un povero altare circondato dai bambini seduti sull’erba o su fragili panche, dentro una casa consacrata, con le pareti celesti, in mezzo alla foresta… si trova sempre il calore di un abbraccio e di un sorriso.
Manca però per tutti un lavoro stabile, ben retribuito e protetto dai sindacati, e soprattutto un’istruzione adeguata. La scuola sta chiudendo: il tuo di notte è terminato e una scia di scolari si riversa nelle stradine verso casa.
Anche la ragazza della lotteria popolare chiude i battenti. Ogni giorno i brasiliani tentano la fortuna giocandosi i numeri che potrebbero cambiare la vita. Lei per oggi ha finito, riporta nello sgabuzzino di un negoziante amico il banchetto e la sedia. Prima però condivide con un viaggiatore di passaggio un po’ di pastel, spuntini di pasta ripieni di carne, aspettando i numeri che usciranno domani.
E nel domani di questa giovane missione c’è anche il progetto di padre Luis di finanziare una scuola matea attraverso una fondazione, denominata Emaus, che si occupi di produrre e commercializzare pesci e farina di funghi, ottima per rafforzare le magre merende degli studenti.
Le vasche per la pescicultura sono già in funzione; il borbottio dei motori si confonde con l’aria ovattata di Monte Gordo, interrotta, ogni tanto, dal verso di un uccello o da qualche canzone per una festa che sta per iniziare.
FAGIOLI MAGICI A ESPLANADA
Il soggetto più attivo nella lotta per la giustizia sociale nelle campagne e per una più equa redistribuzione delle risorse è il Movimento Sem Terra, sorto negli anni ’70.
Nel 1989, quando alcune grandi aziende s’impossessarono senza permesso dei terreni del convento dei cappuccini, frei Chico si rivolse al Movimento per pianificare la riconquista del maltolto. Innanzitutto raccolse in gruppi organizzati tutte quelle famiglie avvezze a vivere ai margini della città o in condizioni di semischiavitù come manodopera dei signori della terra; dopodiché li convinse che era giusto esercitare un’azione di forza, guidando così l’invasione dei terreni illegalmente sottratti alla parrocchia.
I latifondisti reagirono con violenza. Fu chiamata la polizia, che disperse le famiglie: donne, uomini e bambini trovarono rifugio nelle case dei cappuccini e delle suore francescane. Nonostante quell’intimidazione frei Chico non si scoraggiò nella missione di unire e coscientizzare gli sfruttati, e, attraverso il metodo dell’invasione e della trattativa con le grandi aziende, è riuscito negli anni a creare 12 insediamenti e 2 accampamenti.
Gli insediamenti sono comunità agricole ben strutturate: le case sono di mattoni, le scuole primarie funzionano, i giovani hanno a disposizione piccoli spazi per danzare la capoeira; mentre negli accampamenti, di più recente costituzione, le case sono ancora a livello di baracche e le persone aspettano di vedere la loro situazione regolarizzata.
Come a Nova Esplanada dove ancora mancano luce e acqua, tuttavia asilo e scuola elementare sono aperti, una piccola struttura celeste in mezzo all’assolata spianata e alle buste nere che svolazzano incastrate tra i pezzi di legno che formano le casupole.
Qui una volta comandava un’azienda spagnola, che approfittò degli incentivi di un governo assai sprecone per prendere possesso del terreno e poi tenerlo inutilizzato, preda del bestiame di allevatori furbastri. Invece ora chi ci abita coltiva verdura, legumi, miglio, frutta e soprattutto vive una vita degna e non più brutale come prima, in mezzo alla strada o alle dipendenze di latifondisti senza scrupoli.
Certo la tanto sospirata riforma agraria che metterebbe fine a secolari ingiustizie non è stata ancora approvata; nel frattempo molte famiglie possono comunque dirsi felici.
L’attuale governo Lula afferma di volerla realizzare; ma l’ufficio preposto alla sua attuazione è sempre in sciopero, perché privato di molti mezzi; in più, i ben noti poteri forti stanno nell’ombra a sabotare e fare pressioni: insomma la consueta palude della politica.
A frei Chico poco importa, lui va avanti lo stesso. Ormai conosce a memoria tutte le buche che deve schivare sulle strade che collegano il convento alle varie chiesette sparse per tutto il territorio della parrocchia e che possono stare anche a 120 chilometri di distanza.
È quasi l’ora del tramonto. Nel cielo si liquefà un colore misto di arancione, viola e blu scuro. Ai lati del cammino accidentato scorre un oleodotto che sembra un serpente e, immobili, come se spuntassero da sotto terra, le perforatrici, figure fredde intagliate nell’oscurità.
La zona di Esplanada è ricca di petrolio e, a causa della presenza dell’oro nero, arrivano nei forzieri del comune fiumi di banconote. Per questo davanti alla casa del sindaco staziona una guardia armata e diventa così importante vincere le elezioni, nelle quali votano persino i morti. Frei Chico, durante la messa in un piccolo insediamento, scende dall’altare e si avvicina all’assemblea, ricordando che vendere il proprio voto è sbagliato.
Qui è facile venire a fare proselitismi in cerca di consensi elettorali. La gente è sempre vissuta nell’ignoranza dei propri diritti e ha sofferto molto, quindi è abituata a chinare la testa. Sono persone il cui mondo termina alla fine della vanga e poi ritorna su per l’impugnatura di legno, perché c’è da pensare al lavoro nei campi del giorno dopo: uomini e donne che hanno lottato per quel poco che possiedono e che devono mantenere quotidianamente con il sudore della fronte.
Finita la messa, i fedeli offrono a frei Chico delle pannocchie di mais abbrustolite e delle cosce di pollo. Poi egli saluta tutti e, lentamente, dentro il suo corpo esile, toglie il disturbo.
Sulla via del ritorno fa un colpo di clackson a una contadina con il bambino in braccio, vestita di bianco e gli orecchini della bisnonna, viso che sa di Africa e di magia, la regina nera dei fagiolini del sertão.
Paolo Brunacci