FINALMENTE IL DIO CHE ASPETTAVAMO

Kipengere, Matembwe, Kisinga: missioni
della diocesi di Njombe.
Qui opera da 33 anni
padre Camillo Calliari,
missionario della Consolata
trentino.
Sorretto dalla gente
e da numerosi amici italiani,
impegnato in significative
iniziative di promozione umana.
Il suo modello? Gesù di Nazaret.
Che… faceva e insegnava
(cfr. At 1, 1).

Lavoro nella parrocchia di Kipengere
da 14 anni. La missione,
fondata nel 1933, è una
delle prime del Tanzania. Numerosi
sono stati i missionari della
Consolata che vi hanno trasfuso le
loro migliori energie, annunciando
la parola di Dio. Prima ho operato
anche a Kisinga e Matembwe.

SI ACCENDE LA STUFA
Kipengere è una missione ad alta
quota: le montagne toccano i 2.200
metri e fa freddo quasi tutto l’anno.
Una bella stufa trentina rimane accesa
giorno e notte, riscaldando la
casa dei missionari.
Dato il clima (così poco «africano
»), con i giovani abbiamo montato
una piccola industria per produrre
stufe a legna. Ne abbiamo già
sfoate 200 e vanno a ruba. Sono
come le stufe italiane di qualche decennio
fa (cucine): di metallo, con
pietre refrattarie al calore e una piastra
per cuocere il cibo.
La stufa è richiesta da molte donne,
che forse l’hanno vista in casa di
un’amica; cominciano a risparmiare
qualche scellino, finché riescono
a comprarsela. I vantaggi sono numerosi:
mentre il focolare tradizionale
(costituito da tre pietre) è fuori
della casa per il fumo e la cenere
abbondante che produce, la stufa è
nell’abitazione stessa; produce poco
fumo, riscalda l’ambiente e le vivande
si cuociono bene e con meno
legna.
La stufa ha avuto un notevole
successo, tanto che non riusciamo
a soddisfare tutte le richieste.

LA VOCAZIONE DELL’ACQUA
Gesù andava incontro alle persone
e alle loro necessità: lo chiamavano
se il servo era ammalato o se il
figlio era morto, ecc. Egli interveniva
in modo efficace, senza rifiutarsi
a nessuno.
Questa deve essere anche la no-

stra missione: di fronte a chi si trova
nel bisogno, occorre affrontare il
problema e cercare di aiutarlo concretamente.
Appena arrivato in Tanzania, nel
1969 sono stato destinato a Kisinga,
una missione oggi retta dal clero africano.
Non c’era ancora la chiesa,
ma nelle camere dei padri c’era l’acqua
corrente. Una bella comodità, e
pensavo che anche la gente l’avesse.
Ma così non era: la popolazione doveva
andare ad attingere acqua in
fondo alla valle. Il piccolo acquedotto
era stato costruito solo per la
missione. Prolungarlo avrebbe comportato
una spesa impossibile da sostenere.
Erano anche anni molto difficili
per l’economia.
Tuttavia mi assalì una specie di rimorso.
Mi dicevo: «Perché non si
possono unire in sinergia governo,
popolazione, missionari e i loro benefattori
per realizzare un acquedotto
che porti beneficio a tutti?».
Così è nata in me la vocazione degli
acquedotti. A Matembwe, dove
ho lavorato successivamente, ne ho
costruiti quattro. Essendo il territorio
collinoso, bisognava far giungere
l’acqua dalla valle al paese abitato,
posto in alto. Abbiamo fabbricato
grandi ruote idrauliche (simili
a quelle dei mulini) per raccogliere
l’acqua e poi le pompe la spingevano
su. È quanto ho fatto anche a Kipengere.
L’acqua è vita. Senz’acqua proliferano
le malattie (specie il colera,
che qui è endemico). Le donne poi,
come schiave, sono costrette a scendere
e salire continuamente la collina
per rifoirsi d’acqua… Abbiamo
portato l’acqua a 7 dei nostri 13
villaggi, servendo una popolazione
di 16 mila persone. Con l’acqua, c’è
la possibilità di fare mattoni e, quindi,
di costruire la casa in muratura,
un uso che si sta diffondendo.
Quando l’acqua è arrivata nelle
case, abbiamo goduto nel vedere la
gioia delle donne. Prima passavo
nel villaggio e mi salutavano semplicemente;
ma, dopo l’acqua, è tutto
un sorriso. I bambini mi corrono
dietro, mi chiamano per nome, mi
accolgono. Sono felici.

AUTOGESTIONE DALLA BASE
Al presente la priorità è che l’acqua
sia potabile al 100%. In genere
essa è contaminata alla fonte; quindi
si tratta di costruire opere sussidiarie
(filtri e vasche di decantazione)
per renderla idonea al consumo
umano senza rischi.
La manutenzione degli acquedotti
è in mano della gente. La norma è
che, quando l’opera entra in funzione,
sia consegnata a un comitato che
se ne prende cura. Vi sono volontari
italiani, tecnici specializzati, che
realizzano gli impianti; nello stesso
tempo preparano persone del luogo
per renderle capaci di conservarli e
ripararli.
Non vi sono solo «doni», ma «autofinanziamenti
» dalla base. Per assicurare
l’autofinanziamento, ogni
famiglia paga un tot all’anno; chi ha
un’attività in proprio (un negozio o
bar) paga di più. I soldi vengono depositati
in banca. Così ogni comunità
gestisce il proprio acquedotto.
Questo educa a sentire propria l’opera:
tutti devono essee responsabili.
Ciò avviene quando i progetti si
studiano e realizzano insieme. Allora
la popolazione partecipa con entusiasmo
e i risultati sono ottimi. Ad
esempio: in soli tre giorni si è scavato
un solco (70 x 25 centimetri) di
10 mila metri per depositare i tubi
dell’acquedotto. Tali successi incoraggiano
ad intraprendere altri progetti.
L’unico rammarico è di non poter
fare giungere l’acqua a tutti. Sono
tantissimi coloro che la chiedono.
Ma io non ho la bacchetta magica
per farla sgorgare dove non c’è.

FALEGNAMI
A Kipengere, quando sono arrivato,
c’erano 4 falegnami e 2 muratori,
istruiti da un… catechista: apprendisti
senza pretese. C’era anche
un gruppo giovanile, bene organizzato,
ma con poche prospettive di
lavoro. Proprio dai giovani è partita
la richiesta di fare qualcosa di utile
per la loro vita. È nata l’idea di
una scuola professionale.
Abbiamo organizzato due corsi:
uno di falegnameria per i maschi e
uno di economia domestica per le
femmine. La scuola dura un triennio;
al termine, rilascia un diploma
riconosciuto dallo stato, che consente
di essere assunti in qualsiasi
industria o cornoperativa. Grazie all’aiuto
di alcuni benefattori, ogni
studente ha ricevuto una cassetta di
strumenti per iniziare a lavorare in
proprio.
Non solo: abbiamo pure costituito
una cornoperativa, dove i falegnami
diplomati possono lavorare per
due anni guadagnando abbastanza.
La cornoperativa è gestita dai giovani,
che lavorano su ordinazioni, e il ricavato
viene diviso equamente.
In questo modo, dopo 5 anni, un
giovane esce dalla scuola con un diploma,
una professione, una cassetta
di strumenti e un piccolo gruzzolo
per cominciare un’attività. A volte
lo fanno mettendosi in società,
assistiti dalla cornoperativa madre.
La cornoperativa è nata grazie al sostegno
di un’importante azienda edile
di Trento. Un socio della ditta,
Bruno (ha lavorato pure come volontario
a Kipengere), è deceduto;
in suo ricordo, l’azienda ha offerto
40 milioni di lire alla cornoperativa.
Altri volontari della stessa azienda
hanno donato gli strumenti di lavoro
per gli studenti e sono venuti in
loco per piazzare le macchine e sistemare
il capannone.

SARTE, E NON SOLO
Nella scuola di economia domestica
per le ragazze si insegna di tutto:
taglio e cucito, un po’ d’inglese
e matematica, cucina, orticoltura,
allevamento di bestiame minuto…
Quando la ragazza termina il corso,
è pronta per formare una famiglia.
Anche così nasceranno famiglie più
preparate di fronte alla vita.
L’iniziativa mira soprattutto a chi
non trova lavoro e non ha prospettive.
Non ci sono scuole secondarie;
la gente è povera, vive del lavoro dei
campi e non ha la possibilità di pagare
gli studi dei figli. In tale situazione
la ragazza si rifugia in città
nella speranza di trovare l’eldorado,
ma non trova nulla.
La scuola rappresenta una risposta
concreta alle necessità delle ragazze;
la possono frequentare anche
le meno abbienti, perché si richiede
una tassa annuale quasi simbolica.
L’opera si sostiene con l’apporto di
alcuni amici: ad esempio, è venuta
fra noi una docente di una scuola
tecnica di Rovereto; vista la realtà,
essa stessa ha animato i maestri e gli
alunni con una iniziativa di solidarietà
a distanza, gemellandosi con la
nostra scuola.
C’è un elemento non trascurabile:
la scuola ha campi e allevamenti
di bestiame; ciò che si produce è a
favore di tutti.
Quest’anno, d’accordo con gli altri
missionari, ho aperto anche una
casa per accogliere alcuni delle migliaia
di bambini orfani, vittime dell’Aids
dei genitori. In coscienza non
me la sentivo più di lasciarli soli.
Per sostenere la nuova iniziativa,
in Italia sta nascendo una «fondazione
»; chi vi aderisce offre mensilmente
un aiuto in denaro depositandolo
in banca. Pertanto l’orfanotrofio
continuerà, anche quando io
non ci sarò più.

GLI AMICI DELLA MISSIONE
I lettori hanno certamente capito
che, alle mie spalle, vi sono persone
che «spingono», desiderose di fare
del bene: persone che non si accontentano
di un’«offerta una tantum»,
ma che vogliono impegnarsi in modo
continuativo per chi giace nel bisogno.
Basta offrire loro l’opportunità.
Basta saper collaborare.
Allora vale la pena di organizzare
insieme qualcosa di bello, di cristiano.
Io presento progetti seri e
«gli amici della missione» si impegnano
a realizzarli; anzi, incalzano
me, missionario, ad affrettare i tempi.
In questo modo tanti diventano
missionari.
Ho avuto la fortuna di lavorare
con il Cefa (Comitato europeo di
formazione agraria) di Bologna: è
un’organizzazione non governativa
seria, che attua progetti approvati
dal governo, dall’Unione europea,
ecc. Vi sono volontari che, al mattino,
recitano «le lodi» con noi missionari
e, alla sera, «i vespri»: giovani,
coppie e famiglie che lavorarono
in missione entusiasti. Grazie
ad essi, ho conosciuto il mondo del
volontariato: un mondo multiforme
e ricco.
Oltre ai volontari, ci sono i gruppi
spontanei; crescono un po’ dappertutto:
solo in Trentino se ne contano
una settantina. Spesso sono legati
in modo esclusivo ad «un»
missionario; e questo non è sempre
positivo: infatti devono imparare
ad aprirsi anche ad altri missionari,
a tutte le necessità. In ogni caso sono
generosi; l’importante è impegnarli
con progetti validi, che essi
gestiscono nel migliore dei modi.
I progetti, per avere successo e
futuro, devono prima essere sempre
discussi con la gente e il governo locale.

IL VANGELO IN AZIONE
Nell’attività missionaria non basta
annunciare, in qualche maniera,
il vangelo: scuole e opere di sviluppo
sono parte integrante del lavoro
missionario. Si tratta di priorità richieste
dalla stessa chiesa locale.
Oggi, in Tanzania, forse il giovane
missionario non condivide pienamente
questo modo di fare missione.
Certo, i metodi si possono discutere.
Secondo la mia esperienza
di 33 anni, la promozione umana ha
dato e dà frutti positivi. Talora ho
l’impressione che manchi proprio
«il lavoro», così caro al nostro fondatore,
il beato Giuseppe Allamano.
Noi, missionari, dobbiamo seguire
l’esempio di Gesù che predicava,
ma anche faceva; anzi, secondo Gli
atti degli apostoli, «faceva» e… predicava.
La promozione dell’uomo
non è una «cosa sociale»: è carità. È
vangelo in azione.
A Kipengere esistono pure 54 piccole
comunità cristiane, che seguo
tutte anche «spiritualmente». Esco
di casa alle 7,30 del mattino per partecipare
ai loro incontri e, alle 9, indosso
la tuta da lavoro. Con me operano
padre Giovanni Berghi, di
78 anni, e un prete diocesano locale.
Il progetto è di prepararlo ad assumere
la completa responsabilità
della parrocchia.
Kipengere conta anche su 100 ettari
di terra che, coltivati, servono
alle opere dell’intera diocesi. Si producono
ogni anno 2-3 mila quintali
di grano, che la diocesi gestisce secondo
le necessità.
Un giorno è giunto in missione
un anziano. Osservando
le varie opere in cantiere mi
ha detto: «Baba Camillo, questo è il
Dio che noi aspettavamo…». È un
vecchio di 83 anni, con 4 mogli; a 3
ha dato tutto quello che poteva. È
rimasto con una moglie sola dicendo:
«Ho conosciuto il baba missionario,
che ci ha aiutati; per mezzo
suo ho conosciuto anche Dio. Oggi
Lui mi chiama ad essere cristiano».
È un vecchietto che, alla sua veneranda
età, percorre in
bicicletta 20 chilometri
per partecipare alla messa.

Nel 1986 Giorgio Torelli scrisse un libro su padre Camillo Calliari
BABA CAMILLO
Ho cinque ore di silenzio fino alla
campana del primo e così lento
albeggiare, quando Camillo sortirà di
casa a passi di sentirnero trentino, e
andrà a bersi un caffè nella baracca
dove già spira un fil di fumo azzurro.
Le ragazze della missione sanno
prepararglielo al buio, fra i gatti che
si stirano.
Camillo entrerà in chiesa e si vedranno
le sue manone tuttofare mentre
consacrano il pane. Io ci sarò.
Prima fila: otto benedettine africane,
soavemente nere sopra lo scapolare
immacolato. Seconda fila: quel
po’ di ragazzi che hanno trottato i
chilometri del fango a piedi scalzi e
diranno il Padre nostro in swahili.
Padre si dice «baba». Anche Camillo
è «baba». E poi, nell’ultimo banco, io
col golf stropicciato e gli stivali. Si
vedranno le orme dei piedi bagnati,
la pianta e le dita, sul rosso del pavimento.
Un’ora di restauro perché Camillo
torni ad essere quel che s’è
scelto: agricoltore, meccanico, falegname,
saldatore, elettricista, allevatore,
costruttore di tutto che gli riesca
e, in definitiva, «homo faber in nomine
Domini».
Nessuno più crede che sia lecito
annunciare la parola evangelica senza
metterla in pratica. E mi domando:
di cosa urge l’Africa ignota, quella
di cui non si ragiona mai, gli
sconfinati paesaggi dei poveri che
non avvistano prospettive perché insediati
nelle pieghe inaccessibili di
un continente travagliato?
L’Africa irrisolta brama uomini che
si accollino la sua stessa fame, la
sete, la precarietà del destino, il divenire
della gente, la speranza che non
è mai dissipata, i sogni di avere in fine
quel che milioni d’uomini già posseggono
perché hanno saputo tessere
la propria storia in modo diverso.
Io non abito in questa parte d’Africa
per esaminare col bilancino (tarato
da me stesso) quali siano i meriti e i
demeriti degli africani che possiedono
appena una stuoia, una zappa,
tre pietre per il fuoco e il tetto di paglia
infiltrato dai topi. E neanche Camillo,
come tutti i padri della Consolata,
è qui per questo. Io ci sono per
vedere da vicino Camillo e i suoi. E
Camillo dedica l’imbiancarsi della
barba a chi non ha fortune, non sa,
non s’imbatte nei giorni migliori, resta
impantanato negli anni e ha pur
diritto alla giustizia.
Quale giustizia? Ma quella tessuta
da altri uomini, capaci e avveduti,
che gli dedichino fedeltà e fatiche. È
difficile trovar sonno col girotondo dei
pensieri.
Ed è Montanelli che m’insorge alla
mente, spilungone, la voce cupa e
calibrata, le gambe da trampoliere
sotto la tavola e il pane casereccio
spilluzzicato. Siamo in una trattoria
toscana. È marzo. Tutto s’è risolto a
fagioli e vino in fiasco, fuori è un
giorno piovoso e da soprabito che
volteggia. Il Fenicottero viene al dunque:
«Devi farmi un viaggio. Ti scegli
l’Africa che vuoi e scendi a vedere
quel che io so per certo, con la memoria
e l’intuito: i missionari, vecchio
mio, sono gli unici promotori di sviluppo,
i soli che diano garanzie di
battere fame e pochezza perché ci
mettono anima, competenza e rigore
senza scadenza».

(da Baba Camillo, Istituto geografico
De Agostini, Novara 1986, pp. 23-25)

Camillo Calliari




QUASI MAI RAGAZZE, QUASI SEMPRE VITTIME

In una giornata possono guadagnare
quanto in uno o più mesi di lavoro.
Scelta di comodo o necessità?
Dietro le esistenze di queste giovani
ci sono quasi sempre privazioni e violenze,
ed ora anche Aids e aborti clandestini.
Siamo alla periferia di Lima,
ma potremmo essere in qualsiasi metropoli
del mondo: cambiano le modalità,
ma la sostanza è la stessa.
Quella che segue è una testimonianza
forte e tristissima, che evidenzia
la durezza della situazione.
La denuncia è tanto scontata
quanto necessaria.

Posteggiammo l’auto proprio di
fronte alla baracca che Nolberto
mi aveva indicato. Non
c’era niente che poteva fare immaginare
quello che avremmo trovato
all’entrare. Solo una scritta ambigua:
«Video-Pub».
Non so bene per quale lato del
mio carattere, ma ogni tanto amo
mettermi alla prova. È un aspetto
più intellettuale che concreto, ma
sempre, quando qualcuno mi prende
sul serio (e in questo caso era stato
l’amico Nolberto), mi trovo a
compiere passi che mai avrei immaginato
di poter compiere. Il problema
è che, nel momento in cui mi accingo
a compierli, mi viene un terrore
che riesco a superare solo con
una certa dose di incoscienza e in
quei momenti sempre mi torna in
mente la stessa frase: «Ma chi me lo
fa fare?».
La stessa domanda me la posi nel
momento in cui scostammo le tende
nere che chiudevano l’ingresso
della baracca «Video-Pub» di Villa
El Salvador, città di 350.000 abitanti,
all’estrema periferia di Lima, in
Perù.
Scostata la prima tenda nera, i rumori
si attutirono completamente e
gli occhi, passando dalla luce accecante
dell’esterno ad un ambiente
completamente buio, si trovarono a
vagare ansiosi. Un’altra tenda nera
chiudeva il vero ingresso. La superammo
e il cuore cominciò a battere
velocemente. Eravamo all’interno
di un postribolo clandestino di una
periferia del Terzo mondo.
Ma chi me l’aveva fatto fare?
Approfittando di qualche settimana
di ferie in Perù, avevo
deciso di approfondire il tema
dell’Aids. Dopo alcune interviste,
avevo capito che non era possibile
comprendere il problema, se
non cercavo di capire la società in
cui esso nasceva e, all’interno di
questa, due aspetti in particolare: la
sessualità nei giovani e la prostituzione.
Avevo manifestato a Nolberto la
mia idea e lui, da uomo concreto e
conoscitore di ogni aspetto della vita
di Villa El Salvador, mi aveva proposto
una visita alla signora Isabel,
professionista di riconosciuta fama
ed attualmente tenutaria di un piccolo
«elegante» bordello.
Passata la seconda tenda nera, ci
trovammo in un locale di dimensioni
impossibili da definire. Le pareti
erano totalmente dipinte di nero e
l’unica luce presente era una specie
di fluorescente (di quelli che si usano
nelle discoteche di
terza categoria), che
illuminava di luce azzurrognola
solo il
bianco delle camicie e
alcune piccole decorazioni
floreali sulle
pareti nere. Il resto erano
solo sagome indistinte.
La musica ad
altissimo volume
completava l’atmosfera.
L’effetto finale
era di stordimento di
tutti i sensi (solo il
battito del mio cuore
si faceva sentire).
Trovammo un tavolino
con due sedie
e ci sedemmo. In un
attimo due ragazze
(forse di 16 anni) si
avvicinarono e, con
fare molto professionale,
tentarono di sedersi
sulle nostre ginocchia
e appoggiandoci
un braccio sulla
spalla ci chiesero: «Una
caraffa di birra con
compagnia? O forse
preferite una caraffa
di sangrilla con compagnia?».
All’unisono, Nolberto
ed io, quasi ci
fossimo messi d’accordo,
rispondemmo:
«Birra senza compagnia,
grazie». La risposta le lasciò
sconcertate e fece sì che si allontanassero
subito dal nostro tavolo.
Toarono con la caraffa di birra,
che, ad ogni buon conto, ci fecero
pagare salatamente e in anticipo, e
ci chiesero cosa desideravamo di altro.
Chissà, forse vedevano in noi
clienti un po’ particolari, oppure sospettavano
che fossimo poliziotti.
Certamente non dimostravano più
il calore dell’iniziale accoglienza e di
questo eravamo felici.
«Dovremmo parlare con la padrona
» disse Nolberto, che mi aveva
raccontato di averla conosciuta
quando lavorava come taxista.
Le due ragazze sparirono e, dopo
un po’, arrivò una persona con una
torcia elettrica che ci puntò contro
per scrutarci bene negli occhi.
Riempì di domande Nolberto che
rispose sempre a tono, usando il gergo
dell’ambiente.
Ad un certo punto, la donna disse
rivolgendosi a me: «Uno che ha
gli occhi come i tuoi, non può essere
un poliziotto».
Senza rispondere, la invitammo a
sedere con noi e, ordinata un’altra
caraffa di birra (anche questa pagata
salatamente e in anticipo), cominciammo
a conversare.
Qualche giorno prima, avevo
intervistato Max Pinedo, un
ragazzo di 25 anni, studente
di pedagogia e fondatore di un
gruppo giovanile di lotta all’Aids.
Mi avevano detto che Max conosceva molto bene la realtà giovanile
di Villa El Salvador.
La conversazione con lui fu ampia
ed interessante, ma mi lasciò sconcertato.
La città, che come medico
avevo conosciuto 10 anni prima, era
profondamente cambiata e le
problematiche giovanili si mostravano
con tutta la violenza e l’esasperazione
che si può immaginare
all’estrema periferia di una città di 7
milioni di abitanti.
Max, raccontami della sessualità
nei giovani di Villa El Salvador.
«Qui le ragazze di 14 anni sono
considerate ormai “predisposte” ad
un rapporto con l’altro sesso. Ma il
vero problema è il “machismo”. Per
i ragazzi, prima inizi la tua vita sessuale
più dimostri di essere un uomo,
ed è sempre questi che decide
quando e quante volte avere una relazione
sessuale.
In generale per un maschio la vita
sessuale si inizia ai 13/14 anni e, dato
che un ragazzo di questa età cerca
coetanei, la stessa cosa vale anche
per le ragazze e questo al contrario
di quanto si pensa generalmente.
Qui, a Villa El Salvador, c’è la cultura
della forza. Difficilmente si stabilisce
una relazione di coppia che
si sviluppa sulla base di una stabile
relazione d’amore o, almeno, di un
mutuo accordo. Si stabilisce, al contrario,
una competitività fra gli uomini
su chi è più forte, su chi ha più
relazioni sessuali. A scuola, se un adolescente
porta con sé un preservativo,
è ammirato dai compagni,
perché è considerato un ragazzo libero,
un uomo vero. Succede inoltre
che il padre machista, quando il
ragazzo compie 15 o 16 anni, lo porti
con sé ad un bordello affinché abbia
la sua prima relazione sessuale».
Dunque ci sono bordelli a Villa El
Salvador?
«Certamente. A Villa ci sono parecchi
bordelli clandestini. I più comuni
sono case d’appuntamento,
nelle quali tu entri pagando un sol
(mezzo euro, ndr), per assistere ad
un ballo. Entri e trovi ragazze adolescenti
di 14, 15 o 16 anni che ballano
per te. Paghi un altro sol e vedi
ballare le ragazze completamente
nude. Quando termina il ballo, le ragazze
si avvicinano a te per farti consumare
una bevanda; e più consumi
e più hai diritto a tenere con te una
ragazza.
Le ragazze lavorano per una persona,
che di norma è il padrone del
night club. Il loro compito è di spingere
i clienti a comprare da bere, sigarette
e (ovviamente!) droga. Più
questi consumano, più le ragazze
guadagnano. Se poi il cliente vuole
avere una relazione sessuale, deve
andare dal padrone a contrattare il
prezzo.
A Villa El Salvador, ci sono molti
luoghi così, senza alcun permesso legale.
Puoi girare di notte per alcune
strade e vedere tu stesso. Ti invitano
ad entrare, gridando che per un sol
ci sono ballerine nude.
Sono veramente tante le ragazze
che si prostituiscono. Le zone più a
rischio di Lima sono El Cercado, La
Victoria, El Callao, Chorrillos e, appunto,
Villa El Salvador.
In città ci sono bordelli legali con
tutti i necessari controlli sanitari e
dove non si trovano adolescenti, ma
nelle zone povere della periferia è un
altro discorso. Noi, nel nostro lavoro
di lotta all’Aids, siamo entrati come
clienti ed abbiamo chiesto se (almeno)
si vendessero preservativi.
No, neanche questo. Locali così a
Villa ce ne saranno una ventina».
E la polizia non interviene?
«Ma anche i poliziotti frequentano
questi locali! Una volta eravamo
dentro uno di questi bordelli, quando
abbiamo visto arrivare una macchina
della polizia. Le ragazze sono
entrate nella loro auto e se ne sono
andate via insieme. Il padrone le offre
ai poliziotti per non avere problemi».
Ma perché le ragazze si prostituiscono?
«Per denaro, non può esserci altra
ragione».
Vi sono quindi grandi interessi
commerciali intorno all’adolescenza?
«Oh, certo! Immaginati che i night
clubs aprono normalmente alle
6 del pomeriggio e chiudono alle 4
o 5 del mattino.
Un ballo dura tre minuti, ed ogni
tre minuti entra una decina di giovani.
Alcuni si fermano a bere e altri
no. In ogni locale ci saranno 8 o
10 ragazze ed alcuni hanno anche
delle stanze, nascoste normalmente
dietro il bagno, per favorire le relazioni
sessuali».
Dove si iniziano i giovani alla sessualità?
«Nelle discoteche. In alcune danno
il permesso di entrare anche agli
adolescenti e, dopo aver bevuto
qualche cosa, si iniziano. Oltre a
questo c’è poi il diffusissimo problema
della violenza sessuale: il padre,
il vicino di casa, lo zio. Ce ne sono
tanti di casi così!».
Ci sono molte ragazze che rimangono incinte? E aborti?
«Si dice che ogni 10 ragazze adolescenti,
3 o 4 rimangano incinte e di
queste la metà abortiscono».
Dove abortiscono?
«In Perù è proibito abortire. Però
ci sono levatrici o medici che si prestano.
E poi ostetriche e perfino studenti
di medicina. E le ragazze abortiscono
in luoghi non adatti e in
condizioni terribili».
Violenza su violenza?
«Sì, violenza su violenza. Il tutto
mediato dai soldi. Per esempio, a
Villa El Salvador abortire con un
medico costa fra 200 e 400 dollari.
E poi anche in questo caso i giovani
sono soli. Al massimo, si accompagnano
fra loro, con un’amica o il ragazzo».
E i genitori dove vivono? In un altro
mondo?
«I genitori sono troppo occupati
a ingegnarsi per mettere insieme il
pranzo con la cena».
Sì, immagino. Ma volevo dire che
alla fine gli adolescenti si trovano
ad affrontare il mondo da soli.
«È così. L’errore è che né i genitori
né i professori ti parlano di queste
problematiche e, quando la sessualità
comincia a svegliarsi, sono
solo gli amici che ti consigliano. Gli
adolescenti trovano risposte (inadeguate)
solo da loro coetanei».
C’è omosessualità?
«Sì, anche l’omosessualità esiste
ed è molto violenta. Pochi giorni fa
stavo accompagnando al poliambulatorio
del ministero della Sanità un
ragazzo omosessuale adolescente e
lui mi raccontava di essere stato violentato
a scuola. Ci sono poi casi di
abusi in famiglia, nelle feste, durante
il servizio militare».
Sempre violenza. Perché?
«La perdita di valori è una delle
cause principali. Se vuoi parlare agli
adolescenti di sessualità, di gravidanza,
di malattie a trasmissione
sessuale, di Aids, devi partire dai valori.
Soltanto così potrai ottenere risultati».
Spiegati meglio…
«A mio modo di vedere non bisogna
fare campagne informative incentrate
esclusivamente su alcuni aspetti.
Non basta uscire nelle strade
per ricordare di come ci si protegge
dall’Aids. Meno ancora si deve parlare
in senso costrittivo e magari dire
che le ragazze devono arrivare
vergini al matrimonio.
No, questo non serve. Bisogna iniziare
a parlare degli affetti, bisogna
lavorare sui valori, sul rispetto
di se stessi e degli altri, magari con
messaggi del tipo : “io mi voglio bene,
e tu ti vuoi bene?” Prima i valori,
poi la sessualità».
Al secondo litro di birra la testa
cominciava a girare, gli occhi
bruciavano per la strana illuminazione
azzurrognola e le parole
della signora Isabel si ammassavano
in testa, confondendosi con la musica
assordante del «Video-Pub».
Non volevo creare problemi e, d’altra
parte, non potevo neanche pensare
di accendere il registratore in
quell’ambiente.
Le chiesi: «Verrebbe domani mattina
a fare colazione con noi per continuare
la chiacchierata?».
Accettò di buon grado e la mattina
successiva eravamo puntuali alle
10 davanti alla baracca. Ne uscì una
signora vestita in modo elegante, sobriamente
truccata, con due grandi
occhiali neri che le nascondevano lo
sguardo. La signora Isabel (che finalmente
potevo vedere bene) era
sulla quarantina.
Dopo esserci consultati, scegliemmo
un locale verso le spiagge, appena
sotto la città pre-incaica di Pachacamac.
Si poteva fare colazione
all’aperto, con maiale arrosto e
caffè. Insomma, era il locale giusto
per chiacchierare indisturbati.
Come ha iniziato, signora Isabel?
«Come ho iniziato? A 20 anni, nel
Botecito (postribolo legale nel Callao,
porto di Lima, ndr).
Fu a causa di un incidente. Dovevo
operarmi ad un occhio e mi stavano
per buttare fuori dal lavoro di
centralinista in un ufficio. A causa di
questo pericolo, mi misi a lavorare
ancora di più, perché avevo già due
bambine. Ma un giorno chiesi ad una
amica che faceva “il lavoro” di
portarmi con lei.
Un sabato andai con lei e, visto
che ero una novellina, mi drogarono.
Mi dettero delle pastiglie e quel
giorno guadagnai come in un mese
intero da centralinista. La domenica
tornai e guadagnai come tre mesi di lavoro. Mi facevo chiamare Isabel
e il numero della stanza era il
13. Lasciai l’ufficio. Guadagnavo
molto bene. Lavoravo dalle 3 del
pomeriggio alle 11 di notte.
Con quel denaro mantenni le mie
due figlie, aiutai i miei due nonni,
comprai la casa ai miei fratelli, e assistetti
fino ad interrarle le mie zie e
mia madre. Riuscii ad evitare tutti i
vizi, nonostante che le mie compagne
di lavoro mi tentassero continuamente.
Grazie a Dio, ogni 15 giorni eravamo
sottoposte ad una visita medica,
il pap-test ogni tre mesi. Ci insegnavano
come proteggerci. In questo
modo e grazie alle mie
precauzioni, non contrassi alcuna
malattia. Grazie a Dio!
Alcune delle mie compagne invece
si ammalarono. Per guadagnare
qualche soldo in più permettevano
ai clienti di non usare il preservativo.
La mia idea, da sempre, è che
prima di tutto bisogna amare se stessi
e stimarsi. Io mi amavo e mi stimavo
e sapevo di fare quel lavoro
per le mie figlie. Sono sempre stata
prima madre che donna».
Quando ha conosciuto l’Aids?
«Nel 1991 un’amica risultò affetta
dal virus. Quando me ne resi conto,
mi feci tre volte le analisi che furono
sempre negative. Sempre grazie
a Dio».
Quando ha aperto il locale di Villa
El Salvador?
«Abbandonai il lavoro due anni
fa, quando avevo 40 anni. E con i risparmi
accumulati aprii questo posto.
L’idea iniziale era di creare un
locale per le coppie, un night club.
Lo inaugurai. Però le cose non andavano
bene, perché venivano uomini
a chiedere ragazze ed ancora
ragazze. Cercai quindi le ragazze».
Come le cerca?
«Vado alla Chancheria (il mercato
centrale della città, ndr). Metto un
avviso del tipo “si cercano ragazze
per servizio al pubblico” e, quando
arrivano, spiego loro di cosa si tratta.
A volte mi portano delle ragazze
e a questi intermediari pago 20
soles».
Ci sono molte ragazze che vogliono
fare questo lavoro?
«Parecchie. Io sono arrivata ad avee
10. Però adesso il lavoro è diminuito
ed ho solo 4 signorine».
Come mai ragazze tanto giovani
arrivano a prostituirsi?
«Perché hanno bisogno di soldi».
Quanto rimangono le ragazze nel
suo locale?
«Queste che lavorano adesso, le
ho da circa 6 mesi. Altre se ne sono
andate, perché io non sopporto che
abbiano dei “protettori”, che venga
un uomo a prendere i loro soldi.
No, questo non mi piace. Non mi
piace, perché è come se lo facessero
a me. Io insegno loro che devono
lavorare per se stesse, per comprarsi
quello che desiderano: un
terreno per la loro casa, il televisore,
i vestiti.
Mi sono capitate anche ragazze
delinquenti, che hanno tentato di
rubare ai clienti e questo non mi va.
Io voglio solo gente onesta».
Signora Isabel, ha avuto anche ragazze
minorenni?
«Una volta arrivò da me una ragazza,
raccontandomi che non aveva
né madre né padre. Dimostrava
vent’anni. Però un giorno un cliente
mi disse: “Signora, conosco questa
ragazza: ha 15 anni!”. “Che cosa
dice ?”. Corsi subito a cercare la famiglia
e trovai i suoi genitori.
Chiesi a loro : “Avete una figlia di
nome Bony?”. “No”, mi risposero.
Allora tirai fuori una foto e loro la riconobbero.
Raccontai tutto, ma non
se la presero con me. Il padre venne
a portarsi via la figlia. Immaginati
che questa ragazzina, prima di lavorare
con me lavorava già a San Juan
de Miraflores».
Come funziona il suo locale?
«Funziona così: io garantisco un
minimo di 10 soles (circa 4 euro) a
notte. Per ogni caraffa di sangrilla o
di birra che riescono a vendere do
loro altri 5 soles. Più le persone bevono
più loro guadagnano: per questo
sono affettuose con i clienti.
Qui vengono uomini di tutti i tipi:
ingegneri e medici di Lima, falegnami
e delinquenti. Io do loro un buon
servizio; la gente che viene qui ha
soldi».
E se una persona vuole di più?
«Se uno poi vuole il servizio totale,
deve pagare 50 soles, 25 per la casa
e 25 per la ragazza. E io la proteggo».
Perché è aumentata tanto la prostituzione?
«Colpa del Chino Fujimori. Ha liberalizzato
l’apertura di locali “turistici”.
Ha distrutto il mondo del lavoro…
E poi, per una ragazza sopra
i 25 anni, non c’è lavoro».
Come vede la situazione della
prostituzione a Villa El Salvador?
«Fatti di notte una passeggiata per
la Chancheria. Le ragazzine si offrono
per pochi soldi, con 6 soles (poco
più di 2 euro, ndr), ti porti via una
quindicenne. Oltre a questo, ci
sono tanti locali come il mio, forse
una ventina, e tutti gli alberghi a ore».
E i genitori delle ragazze che «lavorano», cosa sanno, cosa dicono?
«I genitori non possono non sapere,
perché le ragazze portano soldi
in casa. E poi, se una ragazzina di
15 anni si compra pantaloni di marca,
se ha un telefono cellulare, cosa
possono pensare i genitori? No, i genitori
sanno, ma le ragazze portano
a casa i soldi per mangiare e devono
rimanere in silenzio».
A quanti anni una bambina ha le
sue prime relazioni sessuali?
«A 12. Scappano alla spiaggia. La
mamma lo sa, ma a molte madri non
interessano le figlie, solo i soldi».
C’è molta violenza verso le donne?
«Certamente. Ma non nel mio locale.
Qui la polizia non ci da fastidio
perché le ragazze sono vestite e non
nude come in altri locali. A me non
piace che stiano senza vestiti. È
brutto. E poi non è necessario che
siano nude per far bere gli uomini.
Negli altri locali è diverso. Ai padroni
non interessano le loro ragazze,
perché sono uomini.
Io, in quanto donna e madre, le
capisco di più. Porto le mie ragazze
ai controlli presso il Centro di salute.
Ogni ragazza ha il suo carnet
bianco ed anch’io».
Ci sono molti aborti?
«Anche a questa domanda debbo
rispondere di sì. Che debbono fare?
Una ragazza, che lavorava con me, a
19 anni aveva già due figli ed il secondo
voleva regalarlo. Molte volte
queste sventurate non conoscono
neanche chi sia il padre. Come fanno
ad allevare e mantenere i figli?».
Continuammo a parlare per un
paio d’ore e, a testimonianza
di questo, ho qui davanti a me
due cassette da sbobinare con la storia
di Isabel, violentata dal padre,
sposata a 12 anni, con due figli a 15,
divorziata a 18, prostituta a 20, tenutaria
di un bordello a 40.
Isabel, donna di gran fede, di gran
onore e con una sua morale. Isabel,
prostituta che fece studiare le figlie
in una scuola di monache per proteggerle.
Isabel, sfruttatrice di ragazze,
donna forte e sicura, a suo
modo femminista. Isabel, con una
coscienza sociale e politica, un po’
simbolo delle contraddizioni della
povertà. Non riesco a dare giudizi
morali fin troppo facili ed inutili,
ma la vita è dura per l’umanità meno
fortunata e più debole. E fra i deboli
del Terzo mondo, i ragazzi adolescenti
sono coloro che più sono
quotidianamente in pericolo. E
fra loro le ragazze sono vittime spesso
predestinate: madri o prostitute
a 15 anni.
Quasi mai ragazze, quasi
sempre vittime.

(*) Guido Sattin è il medico che
cura la seguitissima rubrica «Come
sta Fatou?».

«Macché sfruttate»
Milano. (…) Victoria fa da sè decisamente e rappresenta
una faccia inedita del fenomeno prostituzione,
finora sconosciuta o meglio nascosta ad
arte. Incrociamo il suo faccino 20enne da modella
alla stazione di Milano (…). Il freddo non ti pesa?,
le chiedo (…). Mi risponde che sulla strada si fanno
più soldi più in fretta, e che in poche ore di sacrificio
mette insieme quanto faceva a Praga in 10
mesi. (…) Per chi si aspettava di trovare donne picchiate,
sfruttate, stuprate, o comunque molto infelici
della proporia condizione, l’impatto con la strada
non è dei più decifrabili. Victoria non è un caso
limite, la prostituzione è anche questo. (…) La maggioranza
di quelle contattate qui vivono in appartamento
oppure in albergo. Se gli offri un impiego da
domestica o da segretaria rifiutano guardandoti
come un poveraccio. (…)
Quanto alle schiave (…) siamo molto lontani dal
100% di straniere in catene (e 40% di minorenni
stuprate) sul totale, sovrastimato dal fondamentalismo
di don Benzi nella sua proposta di legge anticlienti,
o dall’80% di sfruttate dei dati Caritas.

Francesco Ruggeri sul quotidiano «Libero»,
27 gennaio 2002

Guido Sattin




VENTO GIALLO nel dramma israelo-palestinese

Medio Oriente, Israele,
Palestina, Gerusalemme…
Al solo evocarli il cuore
si riempie di tristezza. Violenza,
devastazione, odio impoveriscono
l’umanità. Come si è potuto
arrivare a questo punto?
E, al di là della facile retorica,
quali strumenti abbiamo
per comprendere la situazione?
Le idee dello scrittore israeliano
DAVID GROSSMAN.

Nel marzo 1987 uscì in Israele Vento
giallo, il sofferto ed onesto reportage
dello scrittore israeliano David
Grossman, che raccontava situazioni ed
umori nella West Bank. L’allora capo del
governo d’Israele, Ytzkhak Shamir, lo
definì «una trovata giornalistica e nulla
più».
Nove mesi dopo, dicembre 1987, tra la
sorpresa degli israeliani e degli stessi palestinesi
(non di Grossman), iniziò l’intifada
palestinese. Nella prefazione all’edizione
italiana (marzo 1988)
Grossman ammoniva: «La lunga dominazione
nei Territori ha danneggiato
Israele, oltre a far torto ai palestinesi,
però il considerare l’atteggiamento israeliano
come fondamentalmente errato e quello
palestinese come del tutto giusto è anche questa
una faciloneria bugiarda».
Già all’età di 10 anni David Grossman, nato
nel 1954 a Gerusalemme, conduceva una
trasmissione per ragazzi a Israel Radio.
Perfezionata la sua vocazione di comunicatore
radiofonico con lo studio del teatro e della
filosofia, Grossman diventa famoso nel mondo
per i romanzi per bambini ed adulti, tradotti
in 17 lingue.
In Italia si è fatto conoscere con il suo originale lavoro Vedi alla voce: amore,
in cui il piccolo protagonista Momik
crede che la «belva nazista» sia un
animale vero. Nel 1997 ha vinto il superpremio
Grinzane Cavour con il
romanzo Ci sono bambini a zig zag.
Con onestà Grossman si definisce
«un artista del rinvio»,
perché «per anni non sono
andato a compiere visite nei Territori
e nemmeno nella Città Vecchia di
Gerusalemme. Non l’ho fatto anche
perché sentivo quanto mi odiavano
gli abitanti di quei posti e, soprattutto,
perché mi rivolta sapere che esistono
tra esseri umani rapporti di
ineguaglianza».
Forse, però, questo continuo rinvio
ha permesso che radici profonde
crescessero nell’anima dello scrittore
israeliano, che a 33 anni con Vento giallo, frutto di un
rigoroso lavoro di ricerca condotto da un poeta con metodo
e determinazione, ha scritto un libro profetico, scevro
da ogni ipocrisia e sconcertante per la sua attualità
dopo 15 anni. Scrive, infatti, Grossman: «Quando mi
sono accinto in questo viaggio ho deciso di non incontrarmi
con uomini politici e personalità ufficiali, né tra
gli ebrei né tra gli arabi. Volevo incontrarmi solo con
quelli che sono i veri attori, che recitano loro stessi davvero
in questa tragedia, con quelli che pagano di persona
il prezzo delle loro azioni e dei loro insuccessi, del
loro coraggio e della loro codardia, della loro corruzione
e della loro nobiltà».
Lo scrittore ci presenta i protagonisti della «tragedia
» in una serie di «ritratti d’autore» che ci spalancano
orizzonti davvero inaspettati. Nel campo profughi
di Deheisha (dal bambino di 5 anni alla donna di 80)
«tutti loro sono qui… ma tutti loro sono anche laggiù.
Vale a dire che si trovano lì da noi, che sono in quella
che oggi è Israele». Più di due milioni di profughi «si
inebriano di sogni», che in molti casi si trasformano in
odio spietato.
I versi del poeta Radijah Shehadah di Ramallah, ispirati
dall’olivo, dipingono questa metamorfosi «e in quello
stesso momento l’olivo mi ha rapito/e al suo posto c’è
un vuoto in cui confluiscono dolore e ira». Grossman
vede sui volti dei profughi rassegnazione e odio, fomentati
dalle brutali irruzioni nottue dei soldati israeliani
per scoprire «terroristi» ed imprigionare sospetti.
La scuola dell’odio inizia nei fatiscenti asili infantili
dei campi profughi, si nutre con la vita negli stessi campi
e nella disumana ed umiliante attesa ai posti di blocco;
si perfeziona, infine, all’università. L’università di
Betlemme, ad esempio, è animata da studenti seri ed interessati
che dichiarano «l’occupazione militare ci opprime
», mentre «su un grande asse è inchiodata una
grande carta della Palestina, colorata in rosso, con la
scritta “La Palestina a Noi!”».
Persino nel villaggio di Wadi Aguku gli abitanti,
strappati dalla loro terra nel 1948 e fatti ritornare nel
1972, ricordano: «La vita nel campo profughi è dura, là
si deve sempre chinare la testa, aspettando la botta che
non mancherà di colpirti. Dopo qualche anno uno non
ha più nulla se non la paura e la miseria. Spera solo di
morire». Ed è Abu Karb, 85 anni, «la storia ambulante
del paese», a suggerire a Grossman il titolo del libro ricordando:
«Dalla porta dell’inferno verrà questo vento
(perché dalla porta del paradiso spira solo un vento fresco)
e sarà quel vento che gli arabi del posto chiamano
Riah Azpar, vento giallo che viene dall’Est, un vento tremendamente
caldo, un vento che a volte… incendia tutta
la nostra terra, e allora tutti scappano a rifugiarsi nelle
grotte e nelle cavee; ma, anche lì dentro, il vento
raggiunge quelli che vuole raggiungere e cioè i malvagi
e crudeli operatori del male, e lì, negli anfratti delle rocce,
li uccide tutti a uno a uno. E poi, quando questo vento
sarà passato, tutta la terra sarà coperta di cadaveri».
Lo scrittore israeliano registra con rigore i paradossi
insiti sia nel controllo spietato dei Territori e le azioni
brutali, commesse dai soldati israeliani sui ponti, dove
tra lacrime e strilli di bambini vengono distrutti pure i
giocattoli già controllati, sia l’ottusità nell’appoggiarsi ai
«vastari». È questa una «mafia» araba mediatrice nei villaggi
e nel non controllo di dormitori clandestini e imprese
di pulizia, tanto che «dovunque andranno, gli operai
arabi saranno guardati con sospetto, li frugheranno,
li tormenteranno a ogni momento; però ci sono lunghe
ore, al buio, in cui loro hanno in mano tutte le nostre
chiavi».
Denuncia, inoltre, in quale focolaio d’odio e divisione
si può trasformare «l’associazione clandestina di terrorismo
ebraico», che ha in Ofra una delle sue roccaforti. «Dall’essere Anshé
Emunim, uomini di fede, sono
divenuti Gush Emunim, un blocco
di fede… Perfino l’ebraico che
molti di loro parlano è rozzo e superficiale
e stereotipato. Nelle loro
case quasi non ci sono libri (all’infuori
dei libri di religione) e il
loro coinvolgimento nella vita
culturale è in generale piuttosto
basso».
Sul fronte del mondo arabo
Grossman registra sabotaggi, atti
vandalici e atroci crimini, commessi
dai gruppi terroristici arabi,
contro inermi famiglie ed innocenti
bambini israeliani.
In questo suo «viaggio» faticoso
Grossman ha anche incontrato
persone dal volto
«umano». Muni, «definito da tutti un vero uomo», è nato
nei quartieri ultrabene di Rehavia a Gerusalemme e
«rappresenta l’insediamento sulla terra, la colonizzazione
delle zone aride, il fare del deserto
un giardino… Rappresenta l’onestà
e il sacrificio, la semplicità, e
anche una certa rozzezza di modi
che però nasconde una grande capacità
d’azione».
L’autore ha ottenuto informazioni
attendibili nei villaggi grazie a
Nissim Krispil che, studioso di scienze
naturali e della civiltà materiale
degli arabi palestinesi, «parla arabo
come un indigeno… cerca di aiutare
i suoi amici in difficoltà con il governo militare e compie
tante altre piccole azioni… il cui valore però è immenso
agli occhi degli arabi».
C’è pure l’avvocatessa Leah Zemel, infaticabile nel
difendere i diritti degli arabi, che dimostra «franchezza
e spontaneità nelle relazioni e senso di uguaglianza, senza
nemmeno un’ombra di pietismo; assenza di qualsiasi
senso di inferiorità o di superiorità, e nessun patealismo
molle e remissivo».
Tra gli arabi spiccano la figura di Abu Khatam per la
sua «incrollabile nobiltà d’animo e radici profonde, naturali
e superbe» e Tohar, che ha studiato all’Università
di Gerusalemme e ha due bambini sordomuti cui «parla
con amore, con molta semplicità, senza rancore con
nessuno».
Infine l’autore de «La terza via», l’avvocato Radja
Shahadah, un cristiano discendente da «una delle più
illustri famiglie della nobiltà araba», afferma: «Scrivo.
Mi occupo delle ingiustizie legali commesse dalle autorità
nei riguardi dei palestinesi… Faccio tante cose per
non tacere. Se provo odio? Provo ripugnanza quando
incontro degli scemi che dirigono gli affari qui e là. Non
è odio, è compassione».
Grossman termina questo lavoro importante con una
esortazione profetica ed attualissima: «Già da
vent’anni viviamo in una situazione falsa ed
artificiale, basata su illusioni e sull’incerto
equilibrio tra l’odio e il terrore, in un deserto
di sentimenti e di coscienza, e il tempo che
passa diviene pian piano un’essenza a sé, pesante
e sospesa su di noi come un giallo e
soffocante strato
di polvere… Albert
Camus ha detto
che questo passaggio
obbligato, dalla
parola all’azione
morale, ha un nome. Si chiama
“divenire un essere umano”…
Mi sono chiesto quante
volte, durante gli ultimi 20
anni, sono stato degno di
chiamarmi “essere umano” e
quanti fra i milioni di partecipanti
a questo dramma ne
sono stati e ne sono degni…».

«Uno Stato in una situazione imbarazzante
si reinventa un nuovo vocabolario.
Israele non è il primo stato che fa ciò.
Però coloro per i quali la lingua è qualcosa
d’importante si ribellano nel vedere come
la lingua si va pian piano deteriorando…
Per me la precisione linguistica è simile
ad un’azione di sminamento; le parole
devono essere come bandierine poste su
ogni mina localizzata: non devono
neutralizzare gli esplosivi, ma dare atto
della loro presenza in un certo posto,
dichiarandoli col loro vero esatto nome.
Le parole ingannevoli sono sabbia che
nasconde le mine. Sono sabbia
che ci è buttata negli occhi».
David Grossman,
Il vento giallo, maggio 1987

ROMANZI
DI DAVID GROSSMAN,
PUBBLICATI IN ITALIA DA MONDADORI:
L’uomo che corre, Il sorriso dell’agnello,
Le avventure di Itamar, Vedi alla voce: amore,
Il vento giallo, Il giardino d’infanzia di Riki,
Il libro della grammatica interiore, Ci sono bambini
a zig-zag, Un popolo invisibile, Che tu sia per me
il coltello, Un bambino e il suo papà, Il duello.

Silvana Bottignole




«AMARCORD» AFRICANO

Da due decenni
in America Latina,
padre Giuseppe Ramponi
rivive i primi 15 anni
di esperienza missionaria
a tutto campo vissuti
in Kenya: attività religiosa,
promozione umana,
scuole, ricerca linguistica
e antropologica
e inculturazione
del vangelo.

Il 17 settembre 1967 il parroco
con la comunità di Pieve di Cento
(BO) mi diceva addio con
queste parole: «La parrocchia si sente
onorata di dare uno dei suoi figli
alle missioni, per portare la verità e
l’amore di Cristo a coloro che hanno
fame e sete di giustizia».
In novembre mandavo i primi sentimenti:
«Wamba (Kenya): la mia più
grande sofferenza non è la fatica o la
privazione, ma la tristezza nel vedere
tanta miseria».

IL TIROCINIO
Wamba, nella diocesi di Marsabit
e distretto dei samburu, era una missione
in costruzione, con tutte le precarietà
che ne derivavano: alloggio
provvisorio, molestie di insetti, animali,
scorpioni, serpenti e insicurezza di vario genere. Inoltre, dovevo
trovare il mio posto nella “missione”:
studiavo la lingua, svolgevo
qualche attività da prete e davo una
mano nei lavori.
Nel febbraio del 1968 l’apprendistato
era finito. Il parroco disse
che di lingua ne sapevo più di lui
e mi buttò in piena attività missionaria:
cominciai a visitare i
villaggi.
Le scuole erano l’attività
fondamentale della
missione, e permettevano
di creare
comunicazioni
con la gente e
portare l’evangelizzazione
su
un piano possibile:
quello dei ragazzi. Dai vecchi
non ci si aspettava che cambiassero
modo di vivere; ma ci aiutavano, approvando
che i figli ricevessero un’educazione
differente.
Col passare del tempo venivo a
contatto con i veri problemi: contrasti
tra la gente, divisioni tribali, inefficienza
dell’amministrazione pubblica
e, per completare il quadro,
scontri con i missionari protestanti.
Le relazioni ecumeniche andavano
bene in Europa, molto meno in missione.
Presenti nella regione da moltissimi
anni e forti del patrocinio dell’amministrazione
coloniale inglese,
essi si sentivano padroni e ci ritenevano
invasori. Comprendevo il loro
risentimento e li compativo. Più tardi,
in America Latina, ho capito perfettamente come ci si sente, quando
tocca a noi essere invasi dagli evangelici,
che portano via intere comunità
con campagne sistematiche di
proselitismo.

CAPIRE LA GENTE
Dopo un anno cominciavo a delineare
i termini del mio essere missionario:
accettare ogni novità con
impegno ed entusiasmo; accogliere
tutti e amarli con tutte le forze.
Alla fine del ’68 arrivò a Wamba il
dottor Silvio Prandoni, per organizzarvi
un ospedale ideale: ebbi con lui
una serie di dialoghi che mi stimolarono
nella ricerca di capire la gente:
mi aprivo alla necessità di discorsi
antropologici e culturali.
Ma il momento cruciale in cui entrai
nel mondo della cultura avvenne
il 22 dicembre: dopo la messa, un
fabbro samburu, con cui parlavo sovente
su usi e costumi del suo popolo,
mi chiamò in disparte; mi mostrò
un braccialetto di ferro a forma di
serpente fatto da lui stesso e, dopo averci
sputato sopra a lungo con solennità,
me lo consegnò dicendo:
«Da questo momento io e te siamo
una sola cosa: tutto ciò che è mio è
anche tuo, tu sei mio fratello».
Mi commossi e mi sentii inviato e
missionario. Ma ignoravo la parte
non dichiarata della cerimonia: la reciprocità.
Inconsciamente afferrai
un’altra importante verità: uno deve
dare quello che può e aspettarsi altrettanto.
Per fare l’africano avrei
dovuto travestirmi; ma riuscii a fornire
vari dettagli della mia vita, capaci
di farmi riconoscere come amico
e fratello, senza camuffare limiti e
differenze.
Volevo capire la vita della gente e
conoscere tutto, senza dare giudizi e
senza demonizzare nulla. Se qualcosa
mi fosse risultata incomprensibile,
avrei cercato altri punti, tempi e
voci per avere la visione più esatta
possibile.
Arrivarono i primi cambi e diventai
missionario itinerante: da Wamba
a Maralal, poi a Loyangallani e infine
a Moyale: tutte esperienze che
mi aiutarono ad acquisire capacità
indispensabili: adattamento, malleabilità,
creatività, disponibilità.

DA MAESTRO A SCOLARO
All’inizio del 1970 passai a Maralal,
con l’incarico di studiare lingua,
usi e costumi delle popolazioni del
distretto e la supervisione delle scuole
della diocesi di Marsabit. Nel campo
linguistico si cominciava da zero:
bisognava preparare una struttura
grammaticale e glottologica che non
è stata ancora raggiunta.
Ma la difficoltà più grande era convincere
i confratelli della necessità
d’imparare la lingua per comunicare
il vangelo in profondità. Si comunicava
con fatica usando un kiswahili
rudimentale, sufficiente per le attività
comuni; ciò faceva scomparire voglia
e impegno di studiare seriamente l’idioma
locale, il samburu.
Le scuole erano state nazionalizzate;
ma potevano conservae l’identità
cristiana, avendo noi diritto
di nominare il direttore e un certo
numero di maestri. I documenti coloniali
parlavano chiaro al riguardo,
ma bisognava cambiare atteggiamento:
bussare, farsi ricevere, chiedere
e inventare linguaggi nuovi nelle
relazioni con chi al mattino si era
ritrovato seduto ad una cattedra.
Poco a poco ricostruii il dialogo e
il riconoscimento reciproco con le
autorità: queste avevano bisogno di
noi, essendo ancora estranee al mondo
samburu. Mettemmo in atto una
strategia raffinata: fare in modo che
dessero quegli ordini che una volta
venivano da noi.
In cinque anni dovetti cambiare
molte idee e forma mentale: da maestro
mi ritrovai scolaro. Fu come ripercorrere
una vita intera. Toai
piccolo per crescere di nuovo, aggiustare
la mentalità, imparare cose nuove,
rivedere con misure diverse giudizi
e criteri, efficienza ed efficacia.

E FU UN CAPOLAVORO
Nel 1970 la Saint Mary’s Girls Primary
School di Maralal era una scuola
persa in tutti i sensi: il governo aveva
occupato tutto, scuola e convitto, per un litigio tra il parroco e il direttore
distrettuale, che era kikuyu: la
scuola si era riempita di kikuyu; i
samburu erano ridotti a 40 bambine.
Per prima cosa accettai la storia e
ristabilii le relazioni. Saint Mary’s fu
restituita e mi impegnai personalmente
nella ricostruzione. Cercai i
collaboratori; chiesi come direttrice
una suora conosciuta a Wamba.
Dopo cinque anni la Saint Mary’s
era diventata una scuola modello,
balzata in tutto al primo posto: per
insegnamento, profitto accademico,
sport e attività varie. Quando veniva
un personaggio, le autorità lo portavano
con orgoglio a visitare Saint
Mary’s.
Mai dimenticherò un pomeriggio
favoloso, quando le bambine tornarono
vittoriose dalle olimpiadi scolastiche:
le coppe elevate al cielo e il
coro fortissimo che cantava: «Siamo
le bambine di Ramponi». Mi viene
ancora la pelle d’oca.
Devo dire che il mio lavoro non fu
isolato. Con i padri del distretto dei
samburu avevamo creato una frateità
di dialogo e solidarietà. Ogni
mese ci incontravamo e parlavamo
di tutto: lavoro, difficoltà, organizzazione,
pastorale, cultura, progetti.
Ricordo quel tempo come una esperienza
bellissima di sintonia, apertura,
entusiasmo e forza apostolica.

AFRICANI URBANIZZATI
Al Capitolo generale del 1975 fui
scelto come delegato regionale e rappresentante
continentale nel comitato
di preparazione. In assemblea
passò l’idea di creare l’ufficio generale
di ricerca e pianificazione pastorale,
ma ebbe vita difficile per le
resistenze di vecchie prerogative.
Toai a Maralal deciso ad attuare
le indicazioni capitolari: dare visibilità
agli africani e noi missionari assumere
il ruolo dell’uomo invisibile.
Ma trovai l’opposizione di chi avrebbe
dovuto approvare ufficialmente
con coraggio e coerenza le
nuove vie dell’evangelizzazione.
Non potevo continuare in una situazione
superata e fuori della storia;
il parroco condivideva la mia posizione:
lasciammo Maralal per aprire
una missione a Mombasa, sull’Oceano
Indiano.
Si apriva così un nuovo capitolo di
esperienza missionaria: accompagnare
l’africano urbanizzato, cioè
sradicato dalla propria terra e mondo
monoculturale e passato alla città,
in una società pluriculturale.
Si trattava di una zona totalmente
musulmana, con cristiani provenienti
da altre regioni ed etnie del
paese, con relative differenze culturali
ed ecclesiali, con cattolici, protestanti
e tanti movimenti religiosi.
Il prete che prestava qualche servizio
religioso a piccole «colonie», ci
disse che i cattolici erano pochissimi.
Lo diceva a occhi chiusi. Abbiamo aperto
gli occhi e abbiamo contato
più di 6 mila cristiani.
Non avevamo niente. Radunammo
i cristiani in una scuola e cominciammo
a formare le piccole comunità
di base. Ciò facilitava la localizzazione
delle famiglie, raggruppate
in quartieri tribali. Nel campo sociale
mi dedicavo ad aiutare i bambini
poveri perché andassero a scuola.
Una mamma della parrocchia divenne
la cornordinatrice del movimento
«Elimu ni maisha» (educazione
è vita), con un comitato eletto
dalle mamme per la gestione del
progetto. Arrivammo ad avere 230
bambini e bambine, metà dei quali
musulmani. Era chiaro che non dovevano
esserci pressioni di sorta. Anzi,
si pagava una tassa extra per il
maestro di corano che insegnasse ai
bambini musulmani.
Con la gente eravamo abbastanza
affiatati. Si procedeva a misura d’uomo,
cercando di fare una lettura attenta
della realtà culturale, sociale,
politica e religiosa per non cadere
nell’errore di programmi troppo
grandi o fuori posto.
Quando il parroco venne trasferito,
dovetti prendere il timone. La sua
partenza lasciava un grande vuoto.
Avevamo lavorato con affiatamento:
i nostri stili divergevano, ma si completavano;
personalmente avevo bisogno
di lui. La gente soffrì per la
partenza: gli volevano bene; con lui
era facile dialogare.
Un caro amico, anche lui con esperienza
del Marsabit, venne ad
aiutarmi. Continuammo la costruzione
delle strutture parrocchiali. La
chiesa in mattoni era bella e accogliente;
quella di pietre vive anche
migliore: era una casa-famiglia, in cui
si lavorava insieme, sviluppando valori
e qualità specifiche di ogni persona.
La domenica era il giorno per
stare assieme. La settimana era dedicata
al lavoro, alla formazione della
comunità, agli incontri per cornordinare
la promozione umana.
Ma avevo nostalgia dei samburu.
Sarei ritornato volentieri, con decisioni
rinnovate e disponibilità. Mi fu
fatta, invece, un’altra proposta: andare
in Colombia, a Cartagena, tra
gli afro-americani, discendenti degli
schiavi evangelizzati da san Pietro
Claver. Iniziava così un terzo capitolo
di esperienza missionaria: dopo gli
africani in casa propria e
urbanizzati, mi trovavo tra
quelli in esilio.

Giuseppe Ramponi




DA PORTO ALEGRE, L’UTOPIA POSSIBILE

«Lasciamo il pessimismo
per tempi migliori»

Se questo mondo non può andare avanti così, esiste un’alternativa credibile?
Sono seri i movimenti di contestazione che si stanno diffondendo a Nord
come a Sud? Meglio continuare sulla strada segnata dai leaders dell’economia
mondiale riuniti nel «World Economic Forum» di Davos? O raccogliere le sfide
e le alternative proposte dai rappresentanti della società civile raccolta
nel «World Social Forum» di Porto Alegre?
Di tutto questo abbiamo parlato con il professor Houtart, sacerdote, già «collega» di Carol Wojtyla e amico di Helder Camara.

Porto Alegre. Belga, classe
1925, primo di 14 figli,
François Houtart è direttore
del «Centro Tricontinentale» di
Lauvain (Lovanio), in Belgio. Il
centro accoglie ricercatori provenienti
da tre continenti: America
Latina, Africa ed Asia. Si fanno ricerche
nei campi della sociologia,
della cultura e della religione.
Quella delle grandi collaborazioni
inteazionali è una caratteristica
di Houtart, che è anche segretario
del «Forum mondiale delle alternative» e membro del comitato
organizzatore del Forum di Porto
Alegre.
Lo incontriamo in una delle
grandi sale della «Pontificia università
cattolica» (Puc), mentre, seduto
in prima fila, è in attesa dell’inizio
di una conferenza.
Professor Houtart, siamo venuti
da tutto il mondo per capire
se «un altro mondo è possibile».
Ma, sia sincero, in questi tempi
parlare di alternative è realistico?
«L’alternativa esiste ed è concreta.
Il problema è che, oggi come oggi,
non c’è la volontà politica per attuarla.
D’altra parte, le 60.000 persone
giunte da tutto il mondo per
questo secondo Forum di Porto
Alegre sono a dimostrare che la voglia
di cambiamento c’è ed è forte».
Nella coloratissima e festosa sfilata
per le vie di Porto Alegre i manifestanti
scandivano slogan contro
le istituzioni inteazionali:
Fondo monetario (Fmi), Banca
mondiale, Area di libero commercio
delle Americhe (Alca), Organizzazione
mondiale del commercio
(Wto). Anche alla luce della
recente riunione di Doha, quale
aspetto di quest’ultima le sembra
più deplorevole?
«Penso alla proprietà intellettuale,
difesa con i denti dalle industrie
farmaceutiche. Un mio fratello lavora
nel campo farmaceutico. È un
esperto internazionale di processi
di fabbricazione. Non ha idee socialiste,
tutt’altro. Alcune volte è
stato mandato a Cuba e mi ha detto:
“Cuba è molto più efficiente
nella ricerca scientifica di un paese
capitalista. Hanno 40 laboratori e,
quando uno di essi scopre una cosa
nuova, immediatamente lo comunica
agli altri. Allora si fa una
riunione per capire quale laboratorio
è più efficiente per continuare
l’investigazione. Nel mondo capitalista
la prima cosa che si fa è
chiedere il brevetto per fare denaro.
La privatizzazione della ricerca
scientifica serve a giustificare il
profitto di pochi. L’alternativa è
che la ricerca scientifica sia un settore
di competenza pubblica, sostenuto
con soldi pubblici. Per il
vantaggio della collettività e non a
servizio delle multinazionali…».
Ma le industrie si giustificano dicendo
che se non c’è la proprietà
dei brevetti, si frena la ricerca…
«Mi viene in mente l’inventore
dei “raggi X” (Wilhelm Conrad
Röntgen, 1845-1923, premio Nobel
per la fisica nel 1901, ndr), che
si rifiutò di brevettare la sua scoperta perché la considerava un bene
comune da dividere tra tutti».
Professore, qualcuno sostiene
che con il vertice di Genova (luglio
2001) e di Doha (novembre 2001)
si sono fatti passi in avanti nel
campo delle politiche sanitarie. È
vero?
«Affatto. Gli unici progressi sono
avvenuti per puro caso. Dapprima,
per lo scandalo del Sudafrica,
poi a seguito della vicenda dell’antrace,
quando il governo degli
Stati Uniti è intervenuto sulla Bayer
per costringerla a vendere l’antibiotico
a metà del suo prezzo».
Io continuo a chiamarla professore,
ma lei è anche un sacerdote…
«Non c’è dubbio al riguardo. Sono
– risponde con un sorriso – amico
di papa Wojtyla da oltre 30 anni.
L’ho conosciuto da giovane,
quando studiavo in seminario a Roma.
Egli veniva a trascorrere le sue
vacanze di natale e pasqua in Belgio,
mentre io lo visitavo spesso in
Polonia, a Cracovia soprattutto. In
seguito, ci ritrovammo al Concilio
Vaticano II in una commissione
preparatoria per la “Gaudium et
Spes”, della quale io ero il segretario.
Dopo la sua elezione a papa, io
non l’ho più visto…».
Le sue idee, i suoi studi le hanno
creato qualche problema con i vertici
ecclesiastici?
«Sì, ma il fatto di essere sociologo
mi ha aiutato a non rompere.
Comunque, i miei problemi non
sono iniziati con il pontificato di
Giovanni Paolo II. Già durante la
conferenza di Medellin, dove ero
stato invitato dalla Conferenza latinoamericana,
sono stato fatto oggetto
di veto da parte della Santa
Sede. Identicamente c’è stato un
veto per la mia nomina alla testa
dell’“Istituto missiologico” dell’Università
di Münster, in Germania».
D’altra parte, lei ha insegnato
lungamente presso l’Università di
Lovanio, una delle più antiche e
prestigiose università cattoliche
del mondo…
«Verissimo. Ho insegnato a Lovanio
per oltre 30 anni, dal 1958 al
1990. Ad onor del vero, anche lì ho
avuto un paio di richiami…
Tutto ciò non mi ha impedito di
avere rapporti normali con l’episcopato
belga e gli organi centrali
della chiesa. Io affermo la mia appartenenza
alla chiesa cattolica».
Da dove nasce il suo amore per
l’America Latina?
«Da 15 anni di lavoro con quei
paesi e poi dalla stretta amicizia che
mi ha legato a monsignor Helder
Camara. Comunque, non mi sono
interessato soltanto di America Latina.
Ho lavorato anche in Asia, soprattutto
in Sri Lanka e Vietnam».
Lei è uno dei principali organizzatori
del «Forum sociale mondiale
» di Porto Alegre. Rispetto ad esso
le opinioni sono discordanti.
Qualcuno lo disprezza, altri sorridono
con sufficienza, altri ancora
sparano insulti contro i partecipanti,
definendoli illusi o addirittura
pericolosi, nemici dei poveri
e del progresso…
«A me pare che Porto Alegre abbia
prodotto un effetto fondamentale
sul piano internazionale. Vale
a dire un cambiamento di prospettiva,
in base al quale all’idea dominante
che non ci sono alternative al
cammino del capitalismo oggi si
contrappone l’idea che “un altro
mondo è possibile”, perché esistono
delle alternative credibili.
Per sintetizzare, possiamo dire
che il “Forum Social Mundial” di
Porto Alegre rappresenta il punto
di vista della società civile dal basso,
mentre il “World Economic
Forum” di Davos (quest’anno spostato
a New York) porta avanti le
istanze dall’alto.
Attualmente la responsabilità
principale del Forum di Porto Alegre
è sulle spalle di movimenti latinoamericani
ed europei. Ma stiamo
lavorando per coinvolgere di
più il mondo africano, asiatico ed
arabo. Per questo è probabile che,
dopo la prossima edizione (ancora
a Porto Alegre), il Forum sarà ospitato
altrove, forse in India».
Gli obiettori (anche tra i lettori
che scrivono alla nostra rivista) affermano
che tutti questi movimenti
contrari alla globalizzazione
sono, per la loro stessa natura,
contro la società nella quale vivono.
Per dirla in maniera popolare,
sarebbero «persone che sputano
nel piatto nel quale mangiano».
Che rispondere, professor Houtart?
«Il grande vantaggio di Porto
Alegre è di riunire movimenti e organizzazioni,
che non hanno l’obbligo
di essere d’accordo su un testo
unico. D’altra parte, è vero che
a Porto Alegre si riuniscono tutti i
soggetti che hanno preso posizione
contro il neo-liberismo e il capitalismo,
e a favore di una ricerca di
alternative.
Accanto a tutto ciò ci sono anche
molti pericoli: una certa dominazione
delle Organizzazioni non governative
(Ong) sui movimenti sociali,
una folklorizzazione dei movimenti
di resistenza contro la
mondializzazione della filosofia capitalista,
una repressione sempre
più forte (soprattutto dopo l’11
settembre) da parte dei poteri dominanti,
con una criminalizzazione
delle resistenze e delle lotte sociali,
e una militarizzazione delle società».
Professore, a sentire queste sue
considerazioni, non mi pare si possa
essere molto ottimisti per il futuro…
«Guardi, voglio risponderle con
le parole di Edoardo Galeano: “Lasciamo
il pessimismo per tempi migliori”».

Per un’«ecologia
dell’informazione»

Oggi anche l’informazione è una merce. Spesso distribuita in un regime
di monopolio e priva di una qualità essenziale: la veridicità. Ecco cosa propongono
Ignacio Ramonet, direttore de «Le Monde Diplomatique», Roberto Savio, presidente
dell’agenzia giornalistica internazionale IPS, e lo scrittore spagnolo Manuel Vasquez
Montalban. Che concordano su un punto fondamentale: un altro mondo
sarà possibile solo con un’altra informazione. A meno che non si considerino
le notizie della CNN come l’esempio da imitare.

Porto Alegre. Le borse danzano
pericolosamente su teste e
tastiere. Le pance provano a
ritrarsi per tentare di passare nei
pochi centimetri che separano una
postazione di computer dall’altra.
Ci si muove a fatica nella sala stampa
del Forum. L’hanno sistemata in
posizione strategica (ovvero di
fronte ai grandi saloni delle conferenze),
l’hanno attrezzata con computer
nuovi fiammanti, ma hanno
esagerato a comprimere gli spazi.
O, forse, non hanno previsto che al
secondo appuntamento di Porto
Alegre si sarebbero presentati
3.000 giornalisti da 50 paesi.
Già, l’informazione. Una delle tematiche
a cui gli organizzatori del
Forum hanno lasciato più spazio,
per cercare di rispondere a una serie
di difficili quesiti.
Negli spazi dello splendido campus
della Pontificia università cattolica
(la Puc, sede principale del
Forum) sull’argomento si sono susseguite
conferenze, dibattiti, seminari.
Proviamo allora a riassumere
i termini della discussione attraverso
le tesi sostenute da alcuni dei
principali relatori.

LE NOTIZIE?
BREVI, SEMPLICI, LEGGERE

Si dice: nell’era della globalizzazione,
l’informazione è una merce
come un’altra. Una simile affermazione
corrisponde al vero?
Tutti i relatori hanno concordato
che (purtroppo) questa è una
tendenza ormai consolidata. In un
processo di globalizzazione di tutto
e tutti, anche l’informazione è diventata
una merce che circola secondo
le leggi del mercato: domanda
e offerta.
Le multinazionali della comunicazione
hanno fissato le caratteristiche
del prodotto-informazione.
Come debbono essere, allora, le
notizie? «Brevi, semplici, leggere»
ha spiegato Ignacio Ramonet.
Ciò produce conseguenze rilevanti.
Secondo il giornalista francese,
tutto è ridotto a schemi elementari.
Come si nota nell’informazione
che riguarda il Sud del
mondo. I paesi del Sud sono rappresentati
soltanto a tinte forti. Come
un paradiso quando si parla dei
loro prodotti (il caffè, le banane
ecc.) o delle loro attrattive turistiche.
Come un inferno nelle uniche
occasioni in cui la televisione si occupa
di loro e cioè in concomitanza
con tragedie naturali, guerre civili,
genocidi, colpi di stato.
Questa descrizione caricaturale
confonde le idee, crea stereotipi e,
in ultima analisi, disinforma.
Ma – si obietta – ci sono così tanti
mezzi d’informazione che chiunque
ha la possibilità di scegliere tra
una pluralità di fonti alternative…
Oggi l’informazione si è moltiplicata
(soprattutto grazie alle nuove
tecnologie), ma il fenomeno della
concentrazione proprietaria si è
accentuato.
«La globalizzazione – ha spiegato
Manuel Vasquez Montalban –
non è soltanto economica, ma anche
ideologica. L’idea di base (“ha
valore ciò che produce lucro”) deve
essere diffusa. Ecco, dunque, il
motivo della crescente concentrazione
dei mezzi di comunicazione:
la propagazione del pensiero unico
neoliberale».
Il calcolo è presto fatto: tanti media
in poche mani significano meno
pluralismo e quindi meno diversificazione.
Negli Stati Uniti,
per esempio, 5 grandi consorzi detengono
il controllo dell’informazione.
Non c’è quindi da stupirsi se
i contenuti (e i messaggi) si assomigliano
tutti, proprio come una
qualsiasi merce.

NESSUN MESSAGGIO
È INNOCENTE

«Il problema con i grandi media
– ha precisato Montalban – è “saper
leggere”. In primo luogo, dobbiamo
chiederci chi è il padrone
del mezzo e cosa questi vuole proporci.
Nessun messaggio è innocente!».
La qualità della notizia è diventata
così poco rilevante che le imprese
produttrici tendono a offrire
l’informazione gratuitamente. Ma
dove sta allora il business? «Le imprese
in realtà – ha spiegato Ignacio
Ramonet – non vendono informazioni
ai cittadini, ma questi ultimi
agli inserzionisti».
E la veridicità è ancora ingrediente
fondamentale?
Secondo Ramonet, oggi esiste
una diffusa contaminazione dell’informazione,
tanto grave da riuscire
a trasformare la menzogna in
verità e la verità in menzogna. Per
questa ragione il direttore de Le
Monde Diplomatique propone di
praticare una nuova forma di ecologia:
«l’ecologia dell’informazione
», attuata attraverso appositi osservatori
istituiti in ogni paese.
Esiste la possibilità di avere una
contro-informazione? Per Roberto
Savio, fondatore e presidente
emerito dell’agenzia giornalistica
internazionale IPS, a un’informazione
fondata sulle regole della globalizzazione
(come il profitto e l’efficienza)
è necessario opporre una
informazione basata sui valori dei
cittadini: solidarietà, giustizia,
equità e partecipazione.
È vero che stanno apparendo
mezzi di comunicazione alternativi,
«però – ha confessato Montalban
– è difficile resistere».
Inteet è, oggi, uno strumento
fondamentale per mettere in comunicazione
la società civile, ma va
utilizzato bene.
Perché, dopo aver imparato a difenderci
dall’informazione del sistema,
occorre non cadere nello
stesso errore. «La controinformazione
– ha sottolineato Ignacio Ramonet
– deve essere rigorosa. Altrimenti
non serve alla causa».

ALTRO MONDO,
ALTRA INFORMAZIONE

È stato detto: un altro mondo
sarà possibile solo con un’altra
informazione. Difficile non concordare
con questa affermazione.
Manuel Vasquez Montalban ha
portato l’esempio della CNN in
lingua spagnola (la famosa televisione
statunitense ha anche un canale
in questo idioma). «Il canale
nordamericano – ha avvertito lo
scrittore spagnolo – sta seguendo
sia il Forum di New York che quello
di Porto Alegre. Ma ha un approccio
completamente diverso nei
confronti dei due avvenimenti. Serio
per l’evento statunitense, folcloristico
per quello brasiliano».
Capito come funziona il meccanismo?

Sfogliando s’impara…
A NEW YORK, I SIGNORI DEL NEOLIBERISMO
«Il Forum economico (…) ha riunito nel Waldorf
Astoria di New York capi di governo, industriali,
banchieri e scienziati, in breve, i signori e i cervelli
del neoliberismo, quelli che orientano e dirigono la
finanza e l’economia del nostro mondo globalizzato.
(…) Quest’anno non si sono celebrati i trionfi del
cosiddetto “pensiero unico”, della filosofia e dell’economia
occidentale e liberista. Il capitalismo
non se la passa troppo bene in questo tempo».
Gabriele Ferrari sul quindicinale cattolico
«Testimoni», Bologna, 28 febbraio 2002

MA NON ERANO FINITI?
«Chi sperava in una fine imminente del “popolo di
Seattle”, dopo il disgraziato capitolo di Genova, dovrà
per il momento riporre i suoi sogni nel cassetto.
La lunga kermesse di Porto Alegre (…) ha rassicurato
il movimento sulla sua capacità di superare
le avversità».
Maurizio Salvi su «Rocca», quindicinale edito
da Pro Civitate Christiana (Assisi),
15 febbraio 2002

«QUELLI DI PORTO ALEGRE»
«Come chiamarli? Diciamo che sono quelli di Porto
Alegre, perché è ormai questo il simbolo. Globale,
mondiale. Certo sono molto più “global” di un sacco
di gente che li ha definiti sbrigativamente “noglobal”.
(…) Oggi, in tutto l’Occidente
ricco, non c’è paese che
possa vantare una vitalità critica,
democratica, così intensa come
questa Italia, dove c’è un’altra
Italia così poco “global” che fa fatica
persino a stare in Europa. (…)
E infine c’è la sterminata galassia
cattolica, che vedo emergere con
una vitalità strabiliante. Un segmento
di società italiana vasto,
dinamico, carico di idealità. Anche
loro in libera uscita, forse definitiva,
rispetto alle rappresentanze
cattoliche istituzionali. (…)
Fino a luglio del 2001 si diceva
che il movimento era incoerente, contraddittorio,
che non aveva soluzioni da proporre. Adesso che la
globalizzazione è in crisi, l’America è ferma, diventa
chiaro che le soluzioni non le ha nessuno».
Giulietto Chiesa sul quotidiano «La Stampa»,
18 gennaio 2002

ECONOMIA DI RAPINA
«Siamo sicuri, signor ministro, che abbiamo il diritto
di difendere un’economia che non si regge se non
sul furto? (Risponde il) ministro Martino: “(…) Noi
non abbiamo il diritto di difendere le nostre conquiste
economiche e sociali, noi abbiamo il dovere
di farlo (…). I paesi non nascono ricchi, diventano
ricchi. (…) C’è un solo modo per diventare ricchi,
ed è lo sviluppo. È soltanto lo sviluppo che rende
ricchi i paesi. (…) Coloro i quali si oppongono allo
sviluppo, all’apertura dei mercati che sono l’unica
ricetta che conosciamo per produrre ricchezza, colpiscono
soprattutto i poveri, e l’assurdo è che hanno
persino la pretesa di farlo in nome della difesa
dei poveri. (…)”. Un commento? Non è superfluo segnalare
il cinismo delle argomentazioni di questo
discorso (e Martino non è certo il peggiore dei ministri
di questo pericolosissimo governo). La sostanza
del nostro quesito è stata del tutto elusa, ma
indirettamente confermata: abbiamo il diritto di difendere
la nostra economia di rapina? Il governo dice
SÌ, e non smentisce che si tratti di un’economia
di rapina. (…) Lo sviluppo economico è indipendente
dalle scelte dell’etica politica? Questa sarebbe
la questione morale, di cui non si vuole più parlare
(…)».
Da «Tempi di frateità», periodico cattolico
di Grugliasco (Torino), gennaio 2002

«È IL MERCATO, BELLEZZE»
«Fra le tante novità del nostro tempo, anche in Italia,
c’è l’assoluta fiducia nell’economia di mercato.
Quando questa colpisce duro, si ricorda sempre che
lo fa per il nostro bene futuro, avendo essa per scopo
unico, assoluto e indiscutibile lo sviluppo, che a
sua volta non tollera lacci e lacciuoli, di nessun genere.
(…) I lavoratori vogliono conservare le loro
pensioni? Sì, gli dicono Maroni e Tremonti, a patto
che i vostri risparmi contributivi finiscano
nei ‘fondi pensione’ (…). E
se i fondi pensione investono male,
o sono sfortunati, e perdono i vostri
soldi? “È il mercato, bellezze”».
Da «Il nostro tempo»,
settimanale cattolico
di Torino, 20 gennaio 2002

LA GALLINA DALLE UOVA D’ORO
«I contestatori che vogliono limitare
i poteri del Wto o mandarlo a picco
(…) distruggerebbero la gallina dalle
uova d’oro. Dobbiamo respingere
con decisione queste istanze, ma
anche tenere in considerazione le
preoccupazioni legittime e sincere di chi critica il
modo in cui queste uova vengono utilizzate e distribuite».
George Soros sul quotidiano «La Repubblica»,
9 novembre 2001

«DALLA CONTESTAZIONE ALLA PROPOSTA»
«Sono sempre di più i movimenti e le azioni civili di
cooperazione e solidarietà; i vari forum liberi e alternativi
all’economia, al pensiero e alla politica
neoliberisti, che sono passati dalla semplice contestazione
alla proposta, dall’impotenza alla convocazione
efficace».
Pedro Casaldaliga, vescovo di São Felix
do Araguaia (Brasile), sul quindicinale
«Adista», 14 gennaio 2002

…il Forum visto dagli altri
«CHE PENA GLI APOSTOLI TERZOMONDISTI»
«Tutti i mezzi d’informazione contrappongono simbolicamente
– anche per la non casuale contemporaneità
– il Forum economico di Manhattan al Forum
“no global” di Porto Alegre. In maniera esplicita
o suggerita o sottintesa le simpatie vanno in
larga prevalenza a Porto Alegre.
Il buonismo – che non costa nulla e piace molto – induce
a parteggiare per gli apostoli terzomondisti
vocianti nelle piazze o in assemblee confusionarie,
anziché per governanti, banchieri e miliardari rinchiusi
nei loro santuari ovattati. (…) I capitalisti e il
capitalismo hanno trovato (…) un sostegno nelle
manifestazioni dei “no global”: così parolaie, inconcludenti
e truffaldine, nonostante la loro ostentata
nobiltà d’intenti, da riabilitare ogni cinismo
dei possidenti. Il disagio ispirato da questa retorica
saltellante della povertà diventa disgusto se ci
si riferisce alla marea di
politici che (…) sanno
quanto squinteate e
fanfarone siano le parole
d’ordine dei “no
global”. (…) Che pena,
per usare un eufemismo
pietoso».
Mario Cervi
sul quotidiano
«Il Gioale»,
2 febbraio 2002

«UN CAPITALE
E UNA SPERANZA»
«Che “senso” ha, in questo
tempo convulso (…),
il movimento mondiale
che ha tenuto l’ultima sua grande convocazione a
Porto Alegre all’inizio del 2002? Chi voglia guardarlo
con oggettività deve, intanto, prendere atto
di alcuni dati dei quali non è più possibile, dopo tanti
eventi e tante notizie, continuare a dubitare o,
peggio, a negarli. Uno di essi è la ormai assodata
profondità storica del movimento. (…) Un altro elemento
assolutamente caratterizzante è che non siamo
davanti a un movimento soltanto critico (né men
che meno unicamente protestatario) ma, non cessando
di essere tale, esso è anche intensamente
propositivo e costruttivo. (…) Altrettanto brutale,
fino ad essere falsificante, la semplificazione di chi
pretende ridurre tutto ad un insieme di manifestazioni
di strada in reazione ad iniziative ufficiali. (…)
Il senso vero del movimento è di mettere a tema i
problemi della società globale. Da quando (…) la
globalizzazione dell’economia, della politica, della
cultura (…) ha toccato una nuova misura (…), l’intreccio
dei problemi generati da questo nuovo modo
di essere (…) della condizione umana, si è fatto
più aspro e più difficili le condizioni di soddisfazione
degli elementari bisogni di sostentamento materiale,
di crescita umana, di pacifica convivenza.
(…) La riscossa della società (…) si va componendo
appunto attraverso il nuovo movimento globale.
(…) Altro che movimento “no-global”! (…)
Insomma, c’è in queste associazioni, gruppi, movimenti,
reti minori (…) una responsabilità per l’umanità
che spesso manca di essere altrettanto acuta
nelle organizzazioni politiche, nelle istituzioni e
nella cultura ufficiale. Un capitale e una speranza
per il mondo che occorre coltivare con delicatezza
e, vorrei dire, tenerezza».
Umberto Allegretti su «Rocca», quindicinale
edito da Pro Civitate Christiana (Assisi),
1 marzo 2002

«ANCHE PADRE PIO»
«Anche Padre Pio, che aveva il dono dell’ubiquità,
sarebbe entrato in crisi davanti al programma del
secondo Forum sociale mondiale di Porto Alegre
(…). D’altra parte, lo slogan scelto (“Un altro mondo
è in costruzione”)
non lascia dubbi: i noglobal
(…) vogliono rifare
tutto, ma proprio tutto.
(…) I temi messi in
discussione dagli antiliberisti
sono sterminati.
Si va dai “cavalli di battaglia”,
cioè commercio
mondiale, multinazionali
e debito estero, alla
“democratizzazione della
comunicazione”; dall’accesso
alla ricchezza
alla sostenibilità dello
sviluppo; dalla lotta
contro le discriminazioni
fino alla proprietà intellettuale,
etica e politica, diritto alla salute, questioni
ambientali, guerra e terrorismo internazionale.
(…)
I maestri del pensiero no-global tentano di articolare
un’intera visione del mondo anticapitalista. (…)
Ma nonostante la “svolta intellettuale” e le ripetute
assicurazioni di non volere un’altra Genova, resta
la minaccia dei Black Bloc (…) ».
Stefano Filippi sul quotidiano «Il Gioale»,
31 gennaio 2002

«SENI NUDI E BLACK BLOC»
«A guardarlo prevalentemente o esclusivamente dal
punto di vista dello spettacolo, l’“anticonclave” di
Porto Alegre batte largamente il “conclave” di New
York. Vi si incontrano spalla a spalla, o petto a petto,
pensosi uomini di Stato – soprattutto in pensione
– e lesbiche che inalberano il seno nudo come argomento
contro la “globalità”, dai sindacalisti brasiliani
agli anarchici greci, dagli “amici del
consumatore” americani di Ralph Nader ai Black
Bloc».
Alberto Pasolini Zanelli
da Washington per il quotidiano «Il Gioale»,
2 febbraio 2002

«Io e i compagni»
Ho seguito, a debita distanza, il convegno di Porto
Alegre. I temi trattati sono grosso modo lavoro
minorile, sfruttamento sessuale, assenza di tutele
sindacali, fame e denutrizione, istruzione/ignoranza,
insensibilità alla tutela ambientale, malattie endemiche,
assenza di protezione sanitaria e altri analoghi.
Qual è la differenza tra me e i compagni? Essi immaginano
per ognuno di questi problemi competenti
organismi inteazionali (dell’Onu, della Fao, dei
ministeri…), adeguati aiuti economici e ancora più
stringenti apparati normativi, a garanzia di adeguati
controlli in tutto il pianeta, affinché in ogni angolo
della terra si imponga il buon agire e il buon fare…
Io ragiono diversamente e parto da una domanda:
quanti di quei problemi allignano in Italia, in Europa
e in genere nei paesi ricchi d’Occidente? Qualcosa in
verità alligna anche da noi, ma si tratta di fenomeni
da decenni ridotti a percentuali lusinghiere. Allora
viene la seconda domanda: perché da noi tutto sommato
bene e nei paesi del Terzo mondo tutto sommato
male, anzi malissimo? È ovvia e facile la risposta:
da noi lo sviluppo e livelli capillari della libera
iniziativa economica, cioè del capitalismo, ha prodotto
benessere di massa. Altrove manca del tutto o
non riesce, per i più disparati motivi, ad impiantarsi
stabilmente e utilmente, con ciò favorendo il permanere
di ogni arbitrio ed abuso.
In definitiva penso che lo sforzo a favore dei popoli
del Terzo mondo (sforzo sia nostro che loro) sia quello
di rielaborare/inventare grosso modo gli stessi
meccanismi sociali (economici, politici, culturali) che
a noi hanno giovato molto. Altro che «fermare i motori
», come postula il confuso piagnisterno dei no global!
Si tratta, al contrario, di farli girare molto e nel
migliore dei modi. Lo sviluppo più equilibrato possibile
del capitalismo e del mercato porta in sé l’eliminazione
o, quanto meno, la drastica riduzione dei
problemi elencati all’inizio.
Non è una differenza da poco, cari compagni.
Spero di sbagliarmi, ma se davvero foste tornati dal
Brasile con l’idea di prendere a pretesto le sofferenze
del mondo per gonfiare le burocrazie inteazionali
(un posticino non si nega a nessun militante…),
sappiate che questa pretesa è più oscena del turismo
sessuale.
Luigi Fressoia

«Um outro mundo é possível!»
La Conferenza episcopale brasiliana (Cnbb)
Èstato questo il tema della seconda edizione del
«Forum sociale mondiale» (FSM), svoltosi a Porto
Alegre (Rio Grande do Sul) dal 31 di gennaio al 5 febbraio
2002. Decine di migliaia di persone, venute da
131 paesi, 16 mila delegati, migliaia di Ong, entità,
movimenti sociali, associazioni, chiese, partiti: insomma
un’ampia rappresentazione
nazionale e internazionale
(…). Il FSM è più che
uno spazio aperto al dialogo
e al dibattito. Oltre ad essere
un incontro tra persone ed
idee, culture ed esperienze,
l’evento è un cammino per la
costruzione collettiva di un
modello alternativo di società.
I partecipanti all’unisono, attraverso
conferenze, dibattiti
e seminari, hanno sollevato
critiche contundenti alla globalizzazione
neoliberale, quale
modello accentratore ed
escludente. Nello stesso tempo,
hanno cercato di indicare
le vie per una nuova civiltà:
giusta, solidaria e fratea.
Una civiltà sociale ed ecologicamente sostenibile,
pluralistica, democratica e senza esclusione.
Se il «Forum economico mondiale», a New York, si
è concentrato sull’uso delle ricchezze accumulate,
delle risorse del pianeta e del lavoro umano, a Porto
Alegre il fulcro del dibattito è stata la globalizzazione
della giustizia, della solidarietà
e della pace, in un mondo
ricreato dall’intelligenza
umana. (…)
Seminari, conferenze, dibattiti
hanno fatto di Porto Alegre la
capitale del «pensiero politico
alternativo» contrapposto al
«pensiero unico».
Il FSM, sia nella prima che nella
seconda edizione, ha rappresentato
un vero segno dei tempi.
Segno del quale si può dire
a gran voce e non in termini interrogativi,
ma affermativi: um
outro mundo é possível! («un
altro mondo è possibile!»).
Conferenza episcopale
brasiliana
(Brasilia, 7 febbraio 2002)

«SIAMO
UN MOVIMENTO
DI SOLIDARIETÀ
GLOBALE»

Di fronte al continuo deterioramento delle
condizioni di vita dei popoli, noi, movimenti
sociali del mondo intero, ci siamo
incontrati in decine di migliaia nel secondo
Forum sociale mondiale di Porto Alegre. Siamo
qui in gran numero a dispetto dei tentativi di
spezzare la nostra solidarietà. (…)
Siamo diversi (…). L’espressione di questa diversità
è la nostra forza e la base della nostra
unità. Siamo un movimento di solidarietà globale,
unito nella determinazione di lottare contro
la concentrazione della ricchezza, la proliferazione
della povertà e delle ineguaglianze e
la distruzione del pianeta. Stiamo costruendo
alternative, utilizzando modi creativi per promuoverle.
(…)
Noi vogliamo rafforzare il nostro movimento attraverso
azioni e mobilitazioni comuni per la
giustizia sociale, il rispetto dei diritti e delle libertà;
per la qualità della vita, l’uguaglianza, la
dignità e la pace. Lottiamo:
– per la democrazia: i popoli hanno il diritto di
conoscere e criticare le decisioni dei loro governi,
specialmente quando riguardano istituzioni
inteazionali (…);
– per l’abolizione del debito estero e la sua riparazione;
– contro le attività speculative, chiedendo l’introduzione
di tasse specifiche, come la Tobin
tax, e l’abolizione dei paradisi fiscali;
– per il diritto all’informazione;
– contro la violenza, la povertà e lo sfruttamento
delle donne;
– contro la guerra e il militarismo, contro le basi
e gli interventi militari stranieri, e la sistematica
escalation di violenza, noi scegliamo di privilegiare
il negoziato e la soluzione non violenta
dei conflitti;
– per una Unione europea democratica e sociale,
basata sui bisogni dei lavoratori e dei popoli,
che includa la necessità della collaborazione
e della solidarietà con i popoli dell’Est e del Sud;
– per i diritti dei giovani, il loro accesso a una
istruzione pubblica, gratuita e socialmente autonoma,
e l’abolizione del servizio militare obbligatorio;
– per l’autodeterminazione dei popoli, soprattutto
dei popoli indigeni. (*)

(*) Stralcio del documento dei movimenti sociali presenti
al Forum di Porto Alegre. Per scelta del Comitato
organizzatore, il Forum non produce un proprio documento
finale.

«INSIEME, PER UN CAMBIAMENTO POSSIBILE»
Proprio qui, nella nostra Europa dei potenti,
possiamo trovare le chiavi per disinnescare i
meccanismi dell’economia neoliberista che,
nel Sud come nel Nord del mondo, opprimono e
uccidono donne, uomini e bambini, ampliando il divario
tra poveri e ricchi, minando alla base le garanzie
dei diritti umani universalmente riconosciuti,
distruggendo l’ambiente con consumi e produzioni
insostenibili, minacciando la stessa
democrazia. Le colpe dei nostri governi sono evidenti.
Di questo ci sentiamo responsabili. Per questo,
a Genova come a Porto Alegre, ci siamo impegnati.
Per un cambiamento possibile, come ci
hanno insegnato le lotte e le resistenze di tanti movimenti
di base del Sud del mondo. Qui e ora. Ma,
dopo Genova, tanti compagni di strada si sono allontanati.
Spaventati dalla violenza
della repressione, ma anche diffidenti
rispetto a meccanismi di rappresentanza
del movimento e di scelta
dei contenuti e delle azioni (…).
(…) saremo insieme, ma solo se saremo
davvero tutti, condividendo uno
stile nonviolento della nostra iniziativa
politica dal quale non vogliamo
prescindere.
Una partecipazione orizzontale,
senza relatori o portavoce non scelti
da tutti, in un confronto aperto (…)
tra tutte le realtà presenti, impegnandoci
ad allargare, a tornare a
quella pluralità che aveva dato forza
e spessore al Genoa social forum.
Insieme con le nostre storie, politiche,
valori, fedi, convinzioni tutte
sullo stesso piano, compagni, compagne,
fratelli e sorelle. Tutti dentro al Forum,
con regole certe e condivise da tutti, perché il vero
Forum resta fuori, nelle strade e nelle piazze,
nelle periferie e nelle stanze del potere, nei campi,
in fabbrica, nelle case e sotto i cartoni, nei luoghi
della preghiera e della disperazione. Ma solo
insieme. (*)
(*) Stralcio dell’appello all’unità del 26 febbraio già sottoscritto,
tra gli altri, da: don Vinicio Albanesi, don Luigi
Ciotti, don Alessandro Santoro, don Tonio Dell’Olio,
don Paolo Tofani, don Beppe Stoppiglia, Rita Borsellino
(Libera), Sabina Siniscalchi (Mani Tese), Marina Ponti
(Tavola della pace), Gianfranco Bologna (WWF), Nicoletta
Dentico (MSF), Michele Sorice (Università La Sapienza),
ecc.ecc.

Paolo Moiola




DA PORTO ALEGRE, L’UTOPIA POSSIBILE

«Ritorniamo davvero a sognare. Il potere ha paura
di chi sogna. Sogniamo un mondo alternativo.
Il nostro è un mondo assurdo che deve crollare.
Non è possibile rattoppare, mettere delle pezze
su un sistema che è morto e che ci dà la morte.
Sogniamo una cosa nuova». (padre Alex Zanotelli)

«Un mondo ingiusto
non è un mondo sicuro»

È sotto gli occhi di tutti che il tanto decantato sviluppo ha riguardato soltanto
una piccola parte del mondo. Eppure, la potente «Organizzazione mondiale
del commercio» continua ad attribuire poteri salvifici al libero mercato,
che però è un rapporto sociale fondato sulla disuguaglianza. Nel frattempo
anche il finanziere-speculatore George Soros comincia a nutrire dei dubbi…

L’obiettivo fondamentale
dell’«Organizzazione mondiale
del commercio»
(Wto) è quello di liberalizzare il
commercio e la giustificazione è il
benessere dell’umanità. Qualche
anno fa, Renato Ruggiero (il ministro
degli esteri licenziato da Berlusconi,
ndr), allora direttore del Wto,
disse che l’umanità raggiungerà la
felicità nel primo quarto del ventunesimo
secolo, se ci sarà una liberalizzazione
totale del mercato.
Oggi noi constatiamo che, per
ora, la realtà ha mostrato esattamente
l’opposto: 20 anni di storia
neoliberale hanno portato esattamente
all’opposto, cioè ad una riduzione
dello sviluppo da parte
del mondo. A questo punto dobbiamo
chiederci perché questo è
accaduto.

IL MERCATO
È UN RAPPORTO SOCIALE

Qual è la filosofia dell’Omc e
quali sono le sue contraddizioni?
Secondo la teoria neoliberista, il
mercato è un regolatore universale.
Questo significa che, se noi lasciamo
piena libertà ad esso, tutti i problemi
trovano una soluzione, perché
c’è sempre un equilibrio che si
forma tra domanda e offerta. Inoltre,
secondo questa filosofia, il
commercio è il motore dello sviluppo.
Dal punto di vista pratico, questa
teoria è funzionale ad un preciso
obiettivo: l’accumulazione del capitale.
E, di conseguenza, non produce
una regolazione generale, ma
un vantaggio privato.
Ci possiamo domandare: cosa
manca a questa teoria? Qual è l’errore
ideologico alla base? Per essere
semplici, diciamo che l’errore sta
nel fatto che non si riconosce che il
mercato non è un regolatore, bensì
un rapporto sociale.
Sul mercato agiscono due soggetti,
l’offerta e la domanda, che
teoricamente sono uguali, ma nella
realtà non lo sono. E nel rapporto
sociale del capitalismo non possono
essere uguali perché, in base alla
logica della concorrenza, c’è
sempre una parte più forte o più
corrotta che prevale sull’altra. L’accumulazione
capitalistica è possibile
solo se c’è una differenza. In altri
termini, il capitalismo non può
che riprodursi nella disuguaglianza.
Riassumendo: il mercato è un
rapporto sociale e il rapporto sociale
è ineguale.
Due anni fa, a Washington, incontrai
Michel Camdessous, l’ex
direttore generale del «Fondo monetario
internazionale» (Fmi), e discutemmo
sugli effetti delle politiche
dell’organizzazione. Io gli chiesi
se ciò non derivava dal fatto che
il mercato è un rapporto sociale.
Egli mi rispose in modo netto: no.
Pertanto, se il mercato non è un
rapporto sociale, allora è un fatto
naturale, una volontà di Dio. Se accettiamo
questa definizione, non si
può mettere in dubbio nulla: le differenze
tra offerta e domanda, tra
acquirente e venditore, eccetera.
Il mercato non è nato con il capitalismo,
ma molto prima. Ciò che
lo ha trasformato è il rapporto ineguale,
necessario per poter generare
accumulazione. Inoltre, quando
si dice che il mercato è il regolatore
tra offerta e domanda, in realtà
bisognerebbe precisare che esso è
il regolatore della domanda cosiddetta
solvibile. Soltanto una domanda
di questo tipo può entrare
nel mercato. Per intendere questo
punto faccio un esempio.
L’India è l’ottava potenza mondiale.
Ha uno sviluppo industriale
importante e, contemporaneamente,
ha più del 50% della sua popolazione
che vive al di sotto della soglia
di povertà. C’è uno sviluppo
economico spettacolare che riguarda
solo il 20% della popolazione.
Perché? Perché, nella logica capitalistica,
è meglio produrre beni sofisticati
per il 20% della popolazione
che produrre beni di massa
per quel 50% che è sotto la soglia
della povertà. Perché il livello di accumulazione
è maggiore nel primo
caso che nel secondo.
È per questo che, a livello mondiale,
abbiamo una situazione in
cui il 20% della popolazione raccoglie
più dell’80% dei redditi,
mentre il 20% più povero raccoglie
solo l’1,4% della ricchezza totale.
Secondo la filosofia capitalistica,
nel mercato vince il migliore. In
realtà, noi sappiamo che vince soltanto
il più forte. Prendiamo i rapporti
Nord-Sud. Negli ultimi 25
anni le ricchezze del Sud del mondo
sono state succhiate dal Nord.
E questo attraverso tutta una serie
di meccanismi, la maggior parte dei
quali non viene minimamente considerata
nelle discussioni del Wto.
Prendiamo, per esempio, la fissazione
dei prezzi delle materie prime
agricole. Ebbene, questi prezzi
sono considerevolmente diminuiti
negli ultimi 25 anni. Pensiamo al
debito estero che, a causa dei meccanismi
dei tassi d’interesse, si riproduce
costantemente, anche se
negli ultimi 10-15 anni i paesi del
Terzo mondo hanno pagato 4 volte
il loro debito. Eppure oggi molti
di essi sono fino a 6 volte più indebitati
di quanto lo fossero 10-15
anni fa. Il debito del Terzo mondo
assorbe più risorse di quante
vengano restituite attraverso gli
aiuti e l’investimento esteri.
Né va dimenticata la possibilità
dei ricchi del Sud di
espatriare gli utili nei paradisi
fiscali del Nord. È l’insieme
di tutti questi meccanismi
che permette di
realizzare l’accumulazione
necessaria al sistema vigente.
Recentemente sono stato
in Vietnam dove anche la
Coca Cola ha investito. È
stata costruita una società
al 50% dallo stato vietnamita
e 50% dalla multinazionale
statunitense. Dopo
soli tre anni la Coca Cola-
Vietnam ha dichiarato fallimento.
Che cosa è successo?
Hanno speso somme enormi in
pubblicità per arrivare fino al più
piccolo dei villaggi del Vietnam;
a sua volta, la casa madre ha superfatturato
la filiale vietnamita
e questo ha provocato
il crollo. La Coca Cola
madre ha allora
chiesto al governo del
Vietnam di immettere
nuovi capitali all’interno
dell’impresa;
naturalmente il governo
ha risposto
che quella non era
una sua priorità. A
quel punto, i soci
nordamericani
hanno chiesto e ottenuto di avere il
100% della società. Così avviene
che le multinazionali costruiscono
i loro monopoli.

SE ANCHE
SOROS HA DEI DUBBI…

Anche in economia ci sono dei
periodi storici. Ora stiamo passando
da un periodo neoliberale a un
periodo neoclassico.
Persino gente come George Soros,
il più noto finanziere-speculatore
del mondo, è a favore di una
regolazione del capitale finanziario.
Ci si è resi conto dell’insostenibilità
delle continue crisi finanziarie nell’Asia
del sud-est, in America Latina
(ultima in ordine di tempo, l’Argentina),
in Russia; si è visto che in
ogni parte del mondo la povertà
aumenta così come le distanze sociali.
Tutto ciò è pericoloso per il sistema.
A Doha (novembre 2001), in Qatar,
i paesi poveri del Sud si sono
coalizzati; c’è stata anche una convergenza
dei movimenti sociali, da
Seattle a Genova. Si cominciano a
fare delle concessioni, ma non tanto
per risolvere i problemi, quanto
per salvare il capitalismo.

DAL GATT ALL’OMC
Il Gatt (in italiano, «Accordo generale
sulle tariffe e il commercio»)
era l’organizzazione fondata dopo
la seconda guerra mondiale (1947),
accanto alla Banca mondiale e al
Fondo monetario internazionale,
nell’ambito degli accordi di Bretton
Woods, dal nome della piccola
città degli Stati Uniti dove furono
prese tutte queste decisioni.
Il Fondo monetario nacque per
regolare gli scambi fra paesi, rispettando
gli equilibri della bilancia
dei pagamenti; la Banca mondiale
per finanziare, in un primo
tempo, la ricostruzione dei paesi
europei dopo la guerra e, poi, lo
sviluppo nei paesi poveri; il Gatt
per liberalizzare il commercio. Ma
tutto questo accadde in una determinata
situazione economica.
Tra il 1970 e ’75 abbiamo ciò che
viene chiamato il «Consenso di
Washington», che è un accordo tra
multinazionali, la Banca centrale
americana, il Fondo monetario e
Banca mondiale per orientare l’economia
mondiale in un senso neoliberista.
Questo ci porta ad un altro
passaggio storico, che è il passaggio
dal Gatt all’Organizzazione
mondiale del commercio (nata il 1°
gennaio 1995, ma dopo anni di discussioni).
I principi centrali del Gatt erano
tre: primo, che ci fosse lo stesso
trattamento per ogni paese; secondo,
che non esistessero discriminazioni
nelle tariffe; terzo, che tutti i
beni provenienti da un altro paese
avessero gli stessi diritti delle produzioni
intee, compresi gli investimenti.
Come si vede, era l’applicazione
della teoria neoliberale, dove
il mercato diventa il regolatore
e il motore di tutte le attività economiche.
Una simile teoria non ha alcuna
verifica scientifica. In effetti, se noi
prendiamo semplicemente il periodo
del secondo dopoguerra, vediamo
che le economie più sviluppate
sono quelle che hanno protetto la
loro economia e non quelle che si
sono aperte, anche se quello era
uno stato provvisorio. L’espansione
del commercio non è una causa
del progresso e dello sviluppo economico,
ma una conseguenza.
Dunque, siamo partiti da una definizione
che non corrisponde alla
realtà.
Ci sono state molte discussioni
durante i differenti rounds (i momenti
di negoziazione all’interno
dell’organizzazione, ndr) del Gatt.
In realtà, i paesi più ricchi evadevano
in maniera considerevole gli
accordi firmati, ma poi le uniche
sanzioni venivano date proprio dai
paesi ricchi, in particolare dagli Stati
Uniti, in funzione della loro definizione,
per esempio, dei diritti
umani.
Negli ultimi 10 anni ci sono stati
dei cambiamenti profondi. C’è stato
un declino dei paesi in via di sviluppo
a causa della crisi del debito;
c’è stata la caduta del socialismo
reale; ci sono stati alcuni paesi del
Terzo mondo che sono entrati nel
gioco del neo-liberalismo, indebolendo
la posizione collettiva dei
paesi del Sud.
Da qui tutta una serie di diseguaglianze
che si sono ricostruite e una
limitazione progressiva delle protezioni
dei paesi più deboli. Il Wto
è andato molto più in là del Gatt,
entrando in nuovi settori come
quelli della proprietà intellettuale.
Oggi c’è la possibilità, per le economie
più potenti, di dichiarare la
proprietà intellettuale nei confronti
delle scoperte scientifiche che viceversa
dovrebbero essere un bene
comune dell’umanità.

FARMACI
E PRODOTTI AGRICOLI

Tutti conoscono il caso del Sudafrica,
dove 32 imprese farmaceutiche
mondiali denunciarono il
governo locale perché voleva comprare
o produrre farmaci generici
contro l’Aids.
Meno noto è il caso del Vietnam
dove, fino a pochi anni fa, la maggioranza
della domanda di farmaci
era soddisfatta attraverso la piccola
industria locale. Con l’apertura
del mercato sono arrivate le multinazionali
farmaceutiche. Queste
potevano fare tutta una serie di offerte
che non potevano fare le industrie
locali. Il risultato è che oggi
il 60% delle medicine vendute
nelle farmacie del paese sono di
provenienza estera, sono molto più
costose e, quindi, i poveri non le
possono più acquistare.
Il Wto ha creato una propria
struttura giuridica ed è la sola istituzione
internazionale che può imporre
delle sanzioni. Nella realtà
questo è diventato un segno di discriminazione
tra i paesi ricchi e i
paesi poveri, perché la procedura
giuridica è talmente costosa e complicata
che i paesi poveri non se la
possono permettere. Abbiamo visto,
per esempio, il Burkina Faso
chiedere delle sanzioni, perché negli
Stati Uniti vige la pena di morte?
Questa impotenza ha provocato
naturalmente un sentimento di
insofferenza nei paesi più poveri.
È dall’Uruguay Round in poi che
i paesi del Sud hanno accettato le
decisioni del Wto. Perché l’hanno
fatto? Perché le pressioni (o minacce)
del Nord sul Sud sono state
gigantesche. Le pressioni (o minacce)
sono avvenute attraverso la
Banca mondiale e soprattutto il
Fondo monetario: «Se non accettate
le decisioni non avrete più alcun
credito». Io stesso ho sentito il
responsabile per la negoziazione
dell’Egitto che diceva
che non avevamo
idea delle pressioni
che subiva un paese
come il suo per accettare
il documento del
Wto.
Bisogna dire che le
misure protezionistiche
dei paesi più ricchi, in particolare
degli Stati Uniti, sono ancora
molto forti e sono in evidente contraddizione
con la stessa filosofia
del Wto. Solamente i sussidi dei
prodotti agricoli sono pari a 406 miliardi
di dollari all’anno, mentre l’esportazione
dal Sud verso il Nord è
pari a 170 miliardi di dollari.
La diseguaglianza è evidente.
Poiché la cosa essenziale per i paesi
ricchi è di mantenere l’egemonia
economica, ogni tanto bisogna fare
delle concessioni. Quelle fatte in
campo farmaceutico nel summit di
Doha avevano due cause: lo scandalo
del processo contro il governo
del Sudafrica (molto malvisto
dall’opinione pubblica mondiale)
e il problema dell’antrace negli Stati
Uniti. Il governo di Washington
ha preteso (e ottenuto) dalla Bayer
di ridurre drasticamente il prezzo
dell’antibiotico contro l’infezione.
E dunque, dopo un simile episodio,
non poteva più difendere solo
il punto di vista delle multinazionali
farmaceutiche.

L’OSCURO LAVORO
DELLE «LOBBIES»

Ritorniamo al metodo di lavoro.
Prima della conferenza di Doha,
c’è stato un lungo lavoro di
lobbying (pressioni, manovre di
corridoio, ndr) da parte delle multinazionali.
Una organizzazione di nome
«Lotis» (per la liberalizzazione del
commercio e dei servizi), che comprende
le più grandi multinazionali
degli ambienti d’affari americani
ed europei, ha organizzato 14 incontri
segreti (tra l’aprile
1999 e febbraio
2001, insieme ai responsabili
delle negoziazioni
al Wto)
per preparare il documento
da mettere sul tavolo del
negoziato. L’obiettivo era di arrivare
alla maggiore liberalizzazione
possibile in tema di servizi, in particolare
di servizi pubblici (educazione,
sanità, energia, acqua, trasporti,
ecc.).
Vale la pena di ricordare che i
gruppi rappresentati all’interno
della Lotis insieme avevano un giro
d’affari che superava i 100 miliardi
di dollari annui. Una potenza
economica straordinaria a confronto
di paesi come Camerun,
Senegal, Paraguay…
Il documento da discutere è stato
preparato con riunioni informali
con il pretesto dell’insuccesso di
Seattle. Ora, l’Organizzazione
mondiale del commercio è l’unica
istituzione internazionale che funziona
con il sistema «un paese, un
voto». Apparentemente un sistema
democratico, soprattutto se paragonato
ad altre realtà come la Banca
mondiale e al Fondo monetario
in cui ogni voto corrisponde ad una
quota di capitale investito nella
Banca e nel Fondo. C’è però un
dettaglio: non c’è mai stato un voto
all’interno del Wto.
Se non c’è voto, allora come si arriva
ad un consenso? Ecco come.
C’è una divisione in gruppi di lavoro
sui temi principali di discussione:
agricoltura, ambiente, aspetti
sociali, investimenti, sviluppo…
Ogni gruppo è diretto da una persona
scelta dal presidente o segretario
del Wto. Dopo lunghe discussioni
si arriva a un documento
finale, nonostante le critiche al metodo
di lavoro.
La novità di Doha rispetto a Seattle
è che c’è stata una resistenza più
organizzata da parte del Sud del
mondo. C’è stato un risultato positivo
in tema di medicine. Per quanto
riguarda l’agricoltura, si è riusciti
a far passare l’idea dell’eliminazione
dei sussidi, senza fissare però alcuna
data. Mentre, in tema ambientale,
l’Europa voleva ottenere
qualcosa, ma si è dovuta fermare
per il parere contrario degli Stati
Uniti.
Sulle tematiche sociali (introduzione
di tutele dei lavoratori e dell’ambiente)
c’è stata l’opposizione
dei paesi del Sud del mondo, perché
vedono in questi temi una maniera
di proteggere i mercati del
Nord; sul piano delle differenze di
sviluppo tra paesi diversi si sta facendo
strada il principio in base al
quale alcune economie si possono
proteggere, ma solo provvisoriamente.
Insomma, c’è stato un grande
mercanteggiamento su tutto, ma
nessun passo in una direzione positiva.
Cosa si può fare davanti a scenari
tanto negativi? Ci sono delle alternative
fattibili?

RIFORMA O
ABOLIZIONE DEL WTO?

Ci sono differenti tipi di alternative.
Il documento dell’Egitto, per
esempio, chiede che si riconoscano
le differenze tra i diversi partners;
un trattamento uguale è praticamente
un’ingiustizia. Secondo, bisognerebbe
riconoscere il diritto
dei paesi più deboli a difendere le
loro economie e che c’è un rapporto
tra debito e mancato sviluppo di
alcune economie. Terzo, il Wto si
prenda l’impegno di osservare e
criticare quelle pratiche dei paesi
più sviluppati che impediscono lo
sviluppo dell’economia dei paesi
poveri.
Un’altra corrente di pensiero arriva
a dire: bisogna abolire il Wto,
perché non può essere riformato.
Poiché la filosofia stessa del Wto è
la causa dei problemi, non si può
risolvere questo problema mantenendo
l’organismo in vita. Tuttavia,
io credo che occorra essere realisti:
è evidente che non riusciremo
domani a cancellare o sconfiggere
il Wto.
Occorre disegnare un avvenire
più credibile…

UN ALTRO MONDO
È POSSIBILE!

Bisogna avere il coraggio di usare
le utopie di fronte a realtà ingiuste.
L’utopia non è sinonimo di illusione,
ma al contrario rappresenta
la base di qualunque alternativa.
È una spinta all’innovazione, a
cercare, a fare e a gridare che, come
abbiamo detto qui a Porto Alegre,
«un altro mondo è possibile». Proprio
il contrario delle parole della
signora Thatcher: non c’è alternativa
(secondo il famoso acronimo
Tina: «There is no alternative»).
L’utopia è dire: c’è un’altra logica,
diversa da quella capitalista per
costruire l’economia; c’è un’altra
logica, rispetto a quella del mercato,
per fare l’educazione; c’è un altro
modo di fare comunicazione
che non il mercato, altrimenti finiremo
tutti sotto l’egida mondiale di
personaggi come Berlusconi… Sono
possibili molti obiettivi. Per
questo vale la pena di lottare, anche
se sappiamo che sarà un processo
lungo.
A parte il livello più alto dell’utopia,
abbiamo anche vari livelli a
medio e breve termine. Per esempio,
il grande obiettivo politico,
economico, ecologico di dichiarare
l’acqua patrimonio dell’umanità
e non un mercato. E ancora, l’obiettivo
di difendere i servizi pubblici,
che sono privatizzati a tutta
velocità e in tutto il mondo, facendo
dimenticare l’idea stessa di servizio
pubblico.
Un altro obiettivo è quello di
cambiare rotta all’agricoltura, oggi
indirizzata verso l’agro-business
dagli appetiti delle multinazionali.
Per fortuna, i movimenti più organizzati
sono proprio quelli contadini.
Possiamo chiedere, a medio
termine, anche le riforme delle organizzazioni
inteazionali a cominciare
dalle Nazioni Unite e alcune
loro costole come la Fao, come
l’Ondp, che sono oggi in
pericolo.
A breve termine, c’è la regolazione
dei movimenti di capitali attraverso,
ad esempio, l’introduzione
della Tobin tax. Non è sicuramente
questa che sconfiggerà il capitalismo,
ma è un passo in avanti per
arrivare ad una trasformazione del
sistema.

(*) Sacerdote e sociologo, François
Houtart ha insegnato per anni
all’Università cattolica di Lovanio, in
Belgio, una delle più vecchie università
del mondo. Attualmente è segretario
del «Forum mondiale delle alternative
» e direttore del «Centro
Tricontinentale»:
Centre Tricontinental (CETRI)
Avenue Sainte Gertrude, 5
B-1348 Ottignies
Lauvain-La-Neufe (Belgio)
Per altre informazioni biografiche si
veda l’intervista pubblicata in questo
stesso dossier.

I protagonisti

Gatt / Wto – Il Gatt ha regolato le negoziazioni
commerciali tra i paesi
aderenti dal 1947 al 1994. Dal 1995
è stato sostituito dalla più potente
«Organizzazione mondiale del commercio» (Omc in italiano, Wto in inglese).

Tina – Acronimo di «There is no alternative», non c’è alternativa (al
mercato, alla supremazia del privato
sul pubblico). È il credo introdotto
dal primo ministro inglese Margaret
Thatcher, capostipite dei politici convertiti
al neo-liberismo.

Davos / Porto Alegre – Indica la contrapposizione,
anche geografica, tra
il «World Economic Forum» delle multinazionali
e il «World Social Forum»
dei movimenti popolari.

George Soros – Finanziere statunitense
divenuto multimiliardario attraverso
speculazioni inteazionali.
Dopo essersi arricchito, ha cercato di
trasformarsi in filantropo e critico del
sistema capitalistico.

François Houtart




LA LUNGA MANO DELLA PROVVIDENZA

Nata nel 1970 per impulso
del Concilio Vaticano II,
la Caritas Italiana
è uno strumento di animazione
delle comunità cristiane
nell’esercizio della carità.
Questa panoramica storica
ne evidenzia tappe di crescita,
situazione presente
e proiezioni verso il futuro.

C’era una volta… la Poa (Pontificia
opera di assistenza):
organismo con cui, durante
la guerra e nel periodo della ricostruzione,
il papa faceva arrivare alla
chiesa italiana gli aiuti dei cattolici
americani: ingenti quantità di generi
alimentari per le colonie estive,
acquisto e messa a disposizione di sedi
e assistenti sociali.
Per 30 anni, fino al 1970, quando
il papa sciolse la Poa, le diocesi erano
abituate a ricevere. Nel 1971 la
Cei (Conferenza dei vescovi italiani)
istituì la Caritas Italiana: le diocesi venivano
chiamate, non più a ricevere,
ma a condividere aiuti e servizi.

CAMBIO DI MENTALITÀ
La Caritas nasceva come strumento
pastorale di animazione di tutta la
comunità cristiana nell’esercizio della
carità. Tale identità è stata espressa
chiaramente da Paolo VI nel settembre
del 1972: «Una crescita del
popolo di Dio nello spirito del Concilio
Vaticano II non è concepibile
senza una maggior presa di coscienza
da parte di tutta la comunità cristiana
delle proprie responsabilità
nei confronti dei bisogni dei suoi
membri» .
Era Paolo VI che voleva fermamente
la Caritas; la Cei l’ha istituita
forse più per obbedienza che per
piena convinzione, preoccupata che
sorgesse un’altra Poa sulle sue spalle.
Occorreva un cambiamento radicale
nella mentalità e costume della
chiesa italiana. È emblematico a tale
proposito l’incontro che ebbi con un
vescovo incaricato, a livello regionale,
di seguire l’organizzazione delle
Caritas diocesane. «Che cosa ci portate?» mi chiese. «Nulla» risposi. «E
allora perché ci siete?».
Eppure lo Spirito con il Concilio
faceva sorgere nel popolo di Dio una
sensibilità nuova. Nel settembre
1972, mentre stavamo per dare inizio,
alla Domus Mariae (Roma), al
primo Convegno Nazionale delle
Caritas diocesane, si avvicinò timidamente
una donna e mi mise in mano
una busta con 1 milione e 200 mila
lire: erano gli arretrati della pensione
sociale appena riscossi.
Un segno incoraggiante a continuare
un progetto rivoluzionario. Ve
ne furono altri.

EVENTI INCORAGGIANTI
La celebrazione del primo Convegno
nazionale delle Caritas diocesane
nel settembre 1972 era già un’incoscienza:
di Caritas diocesane non
ne esisteva ancora neanche una e i
delegati erano gli stessi che gestivano
gli uffici diocesani della Poa.
Provvidenzialmente, alla fine dell’incontro,
il vicepresidente della
Cei, mons. Castellano, dichiarò formalmente
che nelle diocesi la Caritas
doveva essere una cosa nuova, diversa
dalla Poa. Fu un punto di chiarezza
fondamentale per il futuro
della Caritas.
Un altro fatto provvidenziale fu
l’udienza papale alla fine del Convegno.
Quando andai dal maestro di
camera per chiedere l’incontro, questi
mi chiese se avevamo desideri particolari
di cui il santo padre tenesse
conto nel suo discorso. Mi venne
spontaneo chiedergli che ci commentasse
lo Statuto che ci aveva dato
la Cei. Il papa ne fece l’interpretazione
autentica, sottolineò natura,
funzione, attualità, metodo della Caritas
(vedi riquadro), con una ricchezza
e lungimiranza di contenuti
che non potevamo né prevedere né
aspettarci. E fu la nostra forza, anche
di fronte a incertezze e pareri che incontravamo
lungo la strada.
Un’altra circostanza provvidenziale
ci aiutò a dare l’impronta alla
Caritas: avevamo ricevuto il mandato
di avviarla, ma nessuno aveva pensato
a un fondo per le spese: siamo
partiti nella povertà.
Per raccogliere offerte al tempo
della fame in Biafra (Nigeria), mons.
Freschi aveva messo in piedi una rivistina
di 4 facciate: Italia Caritas. Da
quel rivolo ci venne il necessario per
il primo anno di vita. Ciò che trattenevamo
lo consideravamo un prestito
che ci facevano i poveri, perché
potessimo servirli; quando avessimo
avuto più risorse lo avremmo restituito.
Ciò che facemmo negli anni
successivi.
Fu una grande lezione che ci fece
comprendere che vivevamo con i
soldi dei poveri e che in tutto dovevamo
avere uno stile di sobrietà e povertà.

ARRIVA IL VOLONTARIATO
Intanto emergevano le prime punte
del volontariato: Gruppo Abele,
Comunità di Capodarco, gruppi di
punta delle periferie urbane. Ci interrogavamo
sul significato di tale fenomeno
e sul come comportarci con
i volontari, finché decidemmo di ascoltarli,
per sentire cosa facevano e
pensavano. Nell’autunno del 1975
organizzammo a Napoli il primo
Convegno nazionale del volontariato.
Fu una scoperta per il numero,
qualità di esperienze, carica ideale e
politica.
Decidemmo di coltivare tale movimento,
distinguendo però i ruoli:
la Caritas avrebbe esercitato la sua
prevalente funzione pedagogica di
promozione, formazione e cornordinamento,
lasciando ai cristiani laici
il compito di organizzarsi per l’azione.
Nel maggio 1976 ci fu il terremoto
del Friuli: era la prima grave emergenza
che la Caritas affrontava.
Insieme agli oltre 10 mila volontari,
era presente anche la Caritas Italiana.
Ci venne una ispirazione: verrà
l’inverno, gli studenti andranno a
scuola, gli operai toeranno al lavoro,
questa gente rimarrà sola; è il momento
della presenza della chiesa.
Proponemmo alle diocesi e alle rispettive
Caritas che stavano formandosi
di farsi carico ciascuna di una
parrocchia colpita, assicurando per
tre anni una presenza continuativa:
80 diocesi da Aosta a Otranto risposero
all’appello, gemellandosi con altrettante
parrocchie friulane: fu
un’esperienza forte di condivisione
che, oltre a promuovere e sviluppare
molte Caritas diocesane, divenne
poi un metodo costante, adattato alle
diverse situazioni negli interventi
della Caritas.
Nell’ottobre 1976, durante il primo
Convegno ecclesiale su «Evangelizzazione
e promozione umana»,
svolsi la prima relazione sul tema «Evangelizzazione
ed emarginazione»,
documentando la situazione della
chiesa italiana su tale argomento e
mons. Pasini portò nella sesta Commissione
i principali contenuti che
portavamo avanti come Caritas: implicitamente
avvenne la presentazione
ufficiale della Caritas Italiana davanti
a un centinaio di vescovi e un
migliaio di delegati delle diocesi.
Al termine del Convegno l’assemblea
approvò con un lunghissimo
applauso la mozione presentata dalla
Commissione, con cui si chiedeva
«al Convegno di fare propria la proposta
di farsi carico della promozione
del servizio civile, sostitutivo di
quello militare, nella comunità italiana,
come scelta esemplare e preferenziale
dei cristiani, e di allargare le
proposte di servizio civile anche alle
donne».
Così entrarono nella Caritas il servizio
civile degli obiettori di coscienza
e l’anno di volontariato sociale
per le ragazze.

NUOVI ORIZZONTI
All’inizio del 1980 i giornali parlavano
dei profughi del Vietnam, del
«popolo delle barche». Durante un
viaggio in India, per un progetto di
ricostruzione di capanne distrutte da
un ciclone, insieme a mons. Motolese
approfittai per fare un salto in Malesia
e renderci conto della situazione:
il paese aveva già 70 mila profughi
vietnamiti e non ne voleva altri:
impediva l’approdo delle barche e le
ributtava in mare.
I capi religiosi della Malesia, cattolici
e protestanti, ebrei, musulmani
e buddisti, avevano lanciato un
appello a tutti i credenti del mondo
perché premessero sui loro governanti
affinché accogliessero i profughi
vietnamiti.
Insieme a gruppi e movimenti facemmo
forti pressioni sul governo
che, in prossimità delle elezioni nella
primavera del 1981, cedette, a condizione
che trovassimo preventivamente
lavoro e abitazioni. Un appello
alle Caritas diocesane offrì lavoro
e alloggio per 10 mila famiglie, utilizzati
solo per 3 mila profughi, a causa
di resistenze burocratiche.
Lo statuto della Caritas prevede
interventi nel terzo mondo. Ad allargare
l’orizzonte della carità furono
le grandi calamità che hanno colpito
i paesi poveri: siccità nel Sahel,
carestia in Ghana, Uganda e Mozambico,
guerra e fame in Somalia ed
Eritrea, alluvioni in Bangladesh e India,
terremoto in Guatemala, guerra
civile e carestia in Salvador. Situazioni
che ho vissuto di persona con tre
momenti successivi: intervento immediato,
presenza di solidarietà da
chiesa a chiesa e progetti di ricostruzione
e sviluppo.
Molti dei progetti sono stati realizzati
in collaborazione con lo stato
italiano: accoglienza dei profughi
vietnamiti, installazione dell’ospedale
di Tha Praja in Thailandia, invio
di aiuti in Ghana, Algeria ed Eritrea,
costruzione dei Centri sociali in
Umbria, attuazione del programma
Fai (Fondo aiuti inteazionali) su richiesta
del ministro Forte.
Lo stato si assumeva la spesa delle
operazioni che, per motivi diversi,
non era in grado di fare direttamente.
Fu una collaborazione reciproca,
leale e trasparente.

ULTIMI 15 ANNI
La seconda parte del trentennio di
vita della Caritas Italiana è stata caratterizzata
da un crescente impegno
nella formazione degli operatori al
servizio della carità. Per sacerdoti e
diaconi permanenti è stata inserita,
nei programmi di seminari diocesani,
università e facoltà teologiche dipendenti
dalla Cei, una disciplina
specifica: «Teologia e pastorale della
carità».
Per imprimere maggior impulso ai
rapporti con il territorio, sono state
promosse le scuole socio-pastorali,
analisi dei bilanci comunali, cornoperative
di solidarietà sociale, osservatori
delle povertà e centri di ascolto.
Inoltre, lo sviluppo delle Caritas parrocchiali
ha contribuito ad accrescere
la partecipazione attiva di regioni
e diocesi alla vita della Caritas Italiana
nella preparazione e gestione del
convegno nazionale e sulle altre attività
promosse a livello nazionale e internazionale.
Un momento problematico si è rivelato
l’avvio dell’operazione «8 per
mille». Avevamo insistito perché le
somme destinate alla carità, soprattutto
per il terzo mondo, fossero gestite
dalla Caritas, in conformità allo
statuto datole dalla Cei, onde evitare
confusioni e conflittualità. La presidenza
della Cei ha preferito gestire
direttamente tali aiuti. Anche questo
fu provvidenziale: ha evitato il rischio
di essere percepita come una
centrale di potere finanziario.
Nei rapporti con la società civile, la
Caritas Italiana ha assicurato una
presenza sistematica in varie commissioni
governative: povertà, minori,
Aids, immigrazione, pari opportunità;
ha offerto contributi alla produzione
legislativa: leggi quadro sui
servizi sociali, immigrazione, volontariato,
cooperazione sociale, riforma
della legge sull’obiezione di coscienza,
servizio civile per tutti; ha contribuito
a promuovere sensibilità e solidarietà
verso le fasce deboli, con la
poderosa pubblicazione della Biblioteca
della solidarietà in 37 volumi.
Negli ultimi 15 anni, inoltre, si sono
moltiplicate le emergenze in cui
la Caritas è stata presente con consistenti
aiuti: Eritrea ed Etiopia, Israele-
Palestina, Salvador, Sudan, Armenia,
Romania, Iran, Urss e Lituania,
Somalia, Bangladesh, Albania,
Croazia e Serbia, Bosnia-Erzegovina,
Kosovo, Rwanda, Angola.
In tali emergenze la Caritas ha avuto
anche i suoi martiri: Gabriella
Fumagalli a Merca in Somalia, Antonio
Siriana e Roberto Bazzoni nel
Kosovo.

PER I PROSSIMI 30 ANNI
Grazie alle numerose attività svolte,
la Caritas si è progressivamente
modificata e ingrandita: ha dovuto ricercare
nel tempo l’equilibrio tra l’essenziale
vocazione di animazione e la
risposta a provocazioni molteplici
per impegni concreti. Per costruire il
futuro, essa dovrà affrontare con realismo
e lungimiranza il presente.
Guardando la situazione attuale
nella prospettiva del futuro, vedo
uno scoglio per le Caritas diocesane,
che rimangano sopraffatte dalla gestione
di servizi, sotto la pressione
dei bisogni emergenti.
Inoltre, il bilancio storico di questi
30 anni mostra come la Caritas Italiana
e quelle diocesane hanno avuto
un impensabile sviluppo; non
si può dire altrettanto a livello di parrocchie.
È, quindi, urgenza inderogabile
promuovere Caritas parrocchiali
autentiche: animazione della
carità e attuazione della funzione pedagogica
non si realizzano né a Roma,
né nei centri diocesani, ma nelle
singole comunità parrocchiali, dove
si celebra l’eucaristia, dove vivono le
persone e le famiglie. Può essere l’obiettivo
dei prossimi 30 anni.
Vi sono altri due obiettivi da affrontare
con coraggio e competenza,
sollecitando la collaborazione degli
altri uffici pastorali interessati e dei
gruppi e movimenti presenti nella
comunità cristiana.
Prima di tutto la tutela dei più deboli
nello sviluppo o involuzione
delle politiche sociali. Bisognerà richiamare
costantemente i compiti e
le responsabilità delle pubbliche istituzioni;
affermare concretamente
il valore della gratuità nel volontariato;
animare i cristiani alla solidarietà
sociale, perché tutta l’economia
mantenga al centro la persona. Sarà
un lavoro contro corrente, per contrastare
l’attuale cultura dominante
neoliberista, che mette al centro non
la persona, ma l’economia a servizio
degli interessi privati.
Il secondo obiettivo consiste nell’investire
nei giovani, aiutandoli a
passare dall’obiezione di coscienza
al servizio civile volontario. Ciò richiede
una forte educazione alla non
violenza, alla pace e mondialità; aiutarli
a superare la cultura della guerra
e affrontare in senso positivo la sfida
della globalizzazione; dare loro
speranza e guida contro le strumentalizzazioni
di destra e di sinistra.
La Caritas Italiana potrebbe offrire
un segno profetico di forte risonanza:
orientare i giovani che decideranno
di fare il servizio civile volontario
a compiere tale impegno
nei paesi poveri, a fianco del volontariato
internazionale e nei servizi
assistenziali, sanitari, educativi delle
missioni. Sarebbe una forte esperienza
educativa, che aiuterebbe
i giovani a cambiare
il mondo.

(*) Mons. Giovanni Nervo
è una figura storica della Caritas
Italiana: ne è stato presidente
per 15 anni (1971-1986).

Connotati CARITAS

Paolo VI ai delegati del I Convegno
nazionale delle Caritas diocesane.
Qualificazione istituzionale: «Senza
sostituirsi alle istituzioni già esistenti
in campo assistenziale nelle varie
diocesi, la Caritas si presenta come
l’unico strumento ufficialmente
riconosciuto a disposizione dell’episcopato
per promuovere, cornordinare e
potenziare le attività assistenziali nella
comunità ecclesiale italiana».
Funzione: «Creare armonia e unione
nell’esercizio della carità, di modo
che le varie istituzioni assistenziali,
senza perdere la propria autonomia,
sappiano agire in spirito di sincera
collaborazione, superando individualismi
e antagonismi e subordinando
gli interessi particolari alle esigenze
del bene generale della comunità».
Mezzo di rinnovamento conciliare:
«La crescita del popolo di Dio nello
spirito del Vaticano II non è concepibile
senza una presa di coscienza da
parte di tutta la comunità cristiana
delle proprie responsabilità nei confronti
dei bisogni dei suoi membri. La
carità resterà sempre per la chiesa il
banco di prova della sua credibilità nel
mondo».
Funzione pedagogica: «Al di sopra
dell’aspetto materiale della sua attività,
emerge la funzione pedagogica
della Caritas, l’aspetto spirituale, che
non si misura con cifre e bilanci, ma
con la capacità che essa ha di sensibilizzare
chiese locali e singoli fedeli
al senso e dovere della carità, in forme
consone ai tempi e bisogni. Mettere
a disposizione dei fratelli energie
e mezzi non è frutto di slancio emotivo
e contingente, ma conseguenza logica
di una crescita nella comprensione
della carità che scende necessariamente
a gesti concreti di comunione
con chi è in stato di bisogno».
Metodo: «È indispensabile superare i
metodi empirici e imperfetti, nei quali
spesso si è svolta l’assistenza, e introdurre
nelle nostre opere i progressi
tecnici e scientifici della nostra epoca.
Di qui la necessità di formare
persone esperte e specializzate; promuovere
studi e ricerche per una migliore
conoscenza dei bisogni e delle
cause che li generano e per una efficace
attuazione degli interventi. Oltre
a giovare ai fini di una programmazione
pastorale unitaria, la Caritas
servirà a stimolare gli interventi delle
pubbliche autorità e un’adeguata
legislazione».

Giovanni Nervo




PICCOLE (O FORSE) GRANDI STORIE

Il vasto mondo dell’immigrazione,
oltre ai problemi di sopravvivenza, inserimento, lavoro
e integrazione, nasconde tra le sue pieghe anche
sommesse vicende di affetti.
Che, solo a volte (magari per caso),
riescono ad emergere. E toccano il cuore.

I NONNI DI ALDI

Sulle Langhe, intorno ad Alba, avevo
lasciato una fitta nebbia; ad
Alessandria, già in pianura, mi aveva
accolto invece un sole splendente:
strano, per un giorno di novembre.
Il sole entrava a illuminare anche
lo scompartimento di seconda
classe dell’intercity Asti-Bari, in cui
mi ero accomodata.
Mi colpì subito il vestito, interamente
nero, di una donna anziana
che occupava uno dei sedili accanto
al finestrino. Di fronte a lei, un
uomo; di lui notai la pesante giacca
di lana e una cravatta nera che, frusta
com’era, doveva aver visto molti…
lutti. Due nonni, come dicevano
i capelli quasi interamente bianchi
e i visi solcati dai segni della vita.
Parlavano tra di loro a bassa voce,
con dolcezza; lei più a lungo; lui
attento, in ascolto, rispondeva con
frasi più brevi; lei aveva tra le mani
un fazzoletto pronto per essere portato
agli occhi, che entrambi avevano
rossi di lacrime versate…
Avete mai colto il bello nel suono
di ogni lingua? Non riuscivo a decifrare
una parola di quella conversazione,
ma il fluire delle parole mi
incantava ugualmente. E poi c’era
dell’altro: non era un semplice parlare,
ma un sentimento, uno scambio
di qualcosa che, purtroppo, mi
sfuggiva. Di sicuro era una lingua
slava. Forse erano polacchi, che andavano
a Loreto a sciogliere un voto
alla Madonna o a chiedere una
grazia.
Mi perdonino i fratelli europei orientali.
Però a me, neolatina, le lingue
slave sembrano quasi tutte uguali,
mentre sono così diverse!
Non saprei dire perché, ma quando
sono di fronte a degli stranieri,
mi scatta dentro un qualcosa che io
chiamo «sindrome della padrona di
casa»: cioè un vivo desiderio di accogliere,
ma anche una volontà di
sapere, conoscere. Così, con discrezione,
cercai il dialogo.
Non erano polacchi. Venivano
dall’Albània (come essi dicono), e
non Albanìa (come diciamo noi). Avrei
dovuto capirlo subito: i capelli,
prima di diventare bianchi, erano
stati neri, non biondi; le loro stature
erano basse, i lineamenti sottili
e delicati come sono spesso quelli
degli albanesi. Il loro italiano era di
pochissime parole; ma riuscirono a
dirmi che venivano da Asti e andavano
a Bari, da dove avrebbero preso il traghetto per Durazzo. Da lì una
corriera li avrebbe portati a casa,
in un villaggio tra le montagne. Un
viaggio di 36 ore!
«Avete qualche figlio ad Asti? Lavora?
Sta bene?…». Qui ogni difficoltà
di lingua scomparve. Non saprei
dire come, ma in un soffio riuscirono
a farmi partecipe del loro
pianto e lutto. Sì, avevano un figlio
ad Asti, con un buon lavoro e una
bella famiglia: una brava moglie, anche
lei albanese e due ragazzi, Fatima
di 17 anni e Aldi 12.
L’estate scorsa i ragazzi, in attesa
che ricominciasse la scuola, avevano
trovato anch’essi un lavoretto.
Ma una mattina, Aldi andando in
bicicletta verso la pasticceria in cui
aiutava, fu investito da un’auto e ucciso.
Eccolo Aldi nella foto che la nonna
mi porgeva: un viso sorridente di
adolescente, che rinnovava negli occhi
e nel sorriso quello così stanco
del nonno. Prima di riporla nuovamente
nella busta bianca, la donna
baciò a lungo l’immagine del ragazzo.
Essi, i nonni, solo dopo quattro
mesi avevano potuto andare a piangere,
con quelli che restavano, sulla
tomba di Aldi. Ora, ancora in lacrime,
tornavano in Albania con
quel lutto così grande che non li avrebbe
lasciati mai più.
– Ritoerete in Italia?
– No Italia!
Lo dissero pacatamente, senza risentimento.
Poi non ci furono più
parole tra di noi. Soltanto, prima
ch’io scendessi alla stazione di Ancona,
un forte e lungo abbraccio. Il
dolore, tutti i dolori, ma soprattutto
quello per la perdita di una vita
giovane, non ha confini di nazionalità
e non ha bisogno di parole.
Parliamo tanto di immigrati, ma
ci sfugge il carico di sofferenze che,
in mille modi, l’immigrazione comporta.
Una morte, lontano dal proprio
paese e dai propri cari, è un dolore
infinitamente grande. Quante
famiglie immigrate attraversano l’esperienza
della morte?
Nel pianto dei nonni di Aldi c’era
anche questo: il rimpianto di una
tomba lontana; l’impossibilità di
parole e gesti verso i propri cari, anch’essi
carichi di lutto e dolore.
Si potrebbe cominciare anche da
qui per sentirci uguali: dall’esperienza
del dolore che, ahimé, non
manca nella vita di nessuno, sotto
qualsiasi cielo ci sia dato di vivere.

QUASI TUTTI MIEI FIGLI
Forse il più bel compleanno che
ho festeggiato non è stato uno
dei miei (ormai tanti e… grigi), ma
quello di Victoria.
Victoria Vicky viene dalla Nigeria
ed è una delle mie alunne più assidue
nel corso di lingua italiana per
stranieri. È graziosa e vivacissima;
come quasi tutti i ragazzi africani, è
pronta alla battuta di spirito e alla
risata fragorosa. Parla di sé, ma lo fa
con ritrosia; racconta della sua famiglia
e della vita in Italia quasi per
cenni, per lo più lasciando intuire.
Un pomeriggio annunciò a me e
ai compagni, con tutta la gioia possibile, che aveva ottenuto finalmente
il permesso di soggiorno. Un’altra
volta ci disse che fra una settimana,
il 14 di aprile, sarebbe stato
il suo compleanno. Avrebbe compiuto
20 anni.
Non potevo dimenticarlo: Victoria
è nata nel 1980, esattamente 11
giorni prima di mio figlio Luigi. Così,
quel 14 aprile, comprai un regalino
(troppo piccolo, solo ora me ne
rendo conto), scelsi un biglietto con
una scritta beneaugurante e andai a
scuola.
Quel pomeriggio Victoria era non
solo graziosa, ma anche elegante: sul
capo, una cascata di treccine artificiali
(un po’ bionde) alleggeriva ogni
suo movimento, quasi come in
una piccola coreografia.
Naturalmente incominciammo la
lezione d’italiano, scrivendo a lettere
di scatola sulla lavagna: «Buon
compleanno, Victoria!». E si continuò
sul tema. Ognuno volle dire come
si celebra il compleanno nel suo
paese, con piccole frasi, alcune più
corrette, mentre altre rimandavano
a strutture linguistiche inglesi, spagnole,
arabe, bengalesi, cinesi, russe,
polacche, albanesi.
Quante cose da imparare e condividere!
Zhara in Marocco non festeggia
compleanni, perché questo
non fa parte della tradizione islamica;
in Inghilterra, John finisce la sua
festa in un pub con gli amici; in Persia,
Faime inizia i festeggiamenti una
settimana prima; a Santo Domingo,
Daniel prepara salsa e merenghe
in casa, ma anche all’aperto;
a Lima, in Perù, non è facile per la
madre di Roxana festeggiare i compleanni
dei suoi 15 figli.
A Duala, in Cameroun, la mamma
di Martin prepara cibi tradizionali;
in Bangladesh, la casa di Zaman
e di Nasrim si riempie di tantissimi
fiori… Così, tra frasi scritte,
correzioni, letture ad alta voce ed esercizi,
anche in quel pomeriggio la
nostra lezione si avviava alla fine.
Però, ad un certo punto, Victoria
scomparve. Poi, aiutata da Faime e
Isabel, toò con un grande vassoio
di pasticcini e due bottiglie di spumante.
La lezione si sciolse così nel
più bel compleanno cui io abbia
mai partecipato. L’ambiente della
nostra scuola è povero; l’aula piccola
e disadoa. Ma la festa che abbiamo
vissuto tra quelle pareti resterà
indimenticabile.
Ho sentito che i «miei» 20 ragazzi,
arrivati dalle parti più lontane del
globo, diversi per lingua, religione,
costumi, colore della pelle… si volevano
bene ed erano felici di stare insieme.
Alla ventenne Victoria abbiamo
cantato «buon compleanno» in 10
lingue diverse; ogni canto veniva ascoltato
con curiosità, rispetto ed
interesse, seguito da applausi davvero
giorniosi. Tutti, poi, hanno voluto
essere fotografati con tutti.
Io li guardavo incantata e pensavo:
«Potrebbero essere tutti miei figli!».

LA STORIA DI BILEN
Èsabato sera. E già penso che lo
scorrere delle ore mi porterà la
solita ansia, che si placherà soltanto
quando sentirò girare per due
volte la chiave nella toppa; quando
cioè i miei due figli, entrambi maggiorenni,
saranno rientrati a casa,
dopo aver celebrato il rito del sabato;
dopo essersi omologati al costume
di questo nostro tempo, per cui
le ore del divertimento e dello stare
insieme debbono necessariamente
essere quelle tarde o tardissime della
notte!
La mia tensione del sabato sera è
condivisa da molte altre madri. A loro
voglio raccontare una storia, per
dire che ci sono altre mamme la cui
ansia non conosce sabati, perché nasce
da una separazione totale, da uno
strappo crudele, che noi madri italiane
non riusciamo nemmeno a
pensare possibile.
Bilen ha l’età di mia figlia, 24 anni.
È una graziosa filippina, delicata
e gentile (come sono spesso le orientali),
che assiste con intelligenza
e discrezione una signora, mia
amica. Bilen è sposata a un suo connazionale,
che stenta a trovare in
talia un posto di lavoro fisso; ha tentato
in Veneto; poi è tornato ad Ancona.
Così è essenziale che Bilen
mantenga la sua occupazione. Non
ci sono problemi per questo: Bilen
è brava ed apprezzata. Ma aspetta
presto un bambino.
È felice e trepidante insieme. Intanto
continua a lavorare presso la
signora, che le vuole bene e ha per
lei tutte le accortezze che avrebbe
una madre, sino al nono mese… E
nasce Marilù, un delizioso batuffolo
dagli occhi a mandorla, un mondo
di tenerezza.
Non vedo più Bilen e la immagino
presa dal suo tenero pargoletto
dalla pelle d’ambra e dai capelli di
ebano. Chiedo notizie di lei. «Bilen
è triste e nervosa» mi rispondono.
Non riesco a spiegarmi: perché Bilen,
così dolce e sempre sorridente,
è triste e nervosa?
Immagino che si tratti di problemi
di lavoro: lei dovrà stare con la
piccola Marilù e il marito sarà ancora
alla ricerca di un’occupazione;
forse dovranno chiedere una mano
a qualcuno dei numerosi filippini di
Ancona. E, per una giovane coppia,
è sicuramente fonte di preoccupazione.
Niente di tutto questo. Bilen e il
marito lavorano entrambi. Allora
sarà una zia o una nonna ad occuparsi
della piccola? In un certo senso
è così: una zia, che tornava nelle
Filippine, ha portato con sé la piccola;
essa ora è in un villaggio presso
Manila, dalla nonna, la madre di
Bilen. È successo dopo quattro mesi
dalla nascita.
La notizia mi veniva data con naturalezza
dalla nuova giovane filippina,
che ha sostituito Bilen presso
la signora mia amica. Io ascoltavo
quasi con raccapriccio, incredula,
in un impotente moto di dolore, solidale
con la giovane madre. Poi ho
ragionato su ciò che avevo giudicato
una barbara legge di clan, un’efferata
crudeltà.
I genitori di Marilù avevano cercato
un asilo nido ad Ancona, ma avrebbero
dovuto pagare una quota
mensile di 260 euro; con tale somma,
che essi inviano nelle Filippine,
vive tutta la famiglia di Bilen: padre,
madre, i sei fratelli… e la stessa Marilù.
Anche questo è immigrazione. La
penuria di risorse vitali, che determina
lo strazio innaturale della separazione
di due creature, fatte per
vivere l’una dell’altra; la povertà che
travolge gli affetti più sacri e li muta
in privazione affettiva e in dolore;
l’incapacità di noi piccoli «ricchi
» e delle nostre istituzioni di sollevare
situazioni limite, come quella
di Bilen e della sua Marilù che chiedevano,
in fondo, soltanto un posto
meno costoso in uno dei nostri asili
nido.
E noi, mamme italiane, ci permettiamo
«il lusso» di stare in ansia
per i nostri sfaccendati figli, che
fanno le ore piccole. Poi, la domenica
mattina, tutti zitti in casa, per
carità: i «giovin signori» riposano!
Gran Dio, ci sarà mai
giustizia per i poveri del
mondo?

(*) Docente di lettere nella scuola
media «Giovanni Pascoli» di
Ancona, RITA VIOZZI MATTEI è impegnata
anche in un gruppo missionario
e insegna italiano ad un
gruppo di immigrati.

Rita Viozzi Mattei




INFERNO VERDE

Situata
nel cuore
della foresta tropicale,
diventata parrocchia nel 1997,
Sago presenta tutti i problemi
degli inizi; ma la cordialità della gente
incoraggia missionari e suore a raccogliee
le sfide: clima caldo umido e zanzare
in abbondanza, carenze scolastiche e sanitarie,
babele di lingue e culture, con costumi che fanno
a pugni col vangelo… E qualcosa sta cambiando.

«Sago è un villaggio avviato
a diventare città – attacca
con enfasi Raphael, capo
tradizionale e maestro della scuola
locale -. È un villaggio cosmopolita.
Buona parte della popolazione viene
dall’estero: Burkina Faso, Mali,
Guinea, Liberia, Ghana, Togo, Benin
e perfino dal Congo. Posta all’incrocio
delle strade di collegamento
a varie città della regione, e ai
villaggi minori della zona, Sago è stata
scelta come sede della sotto-prefettura
ed è destinata a diventare una
città pilota. Ma non abbiamo nulla:
il prefetto non è ancora arrivato; le
strade non sono asfaltate, non c’è elettricità,
né telefono, né acqua corrente.
Dei quattro pozzi solo due sono
in funzione».

EPPUR SI MUOVE…
Senza tante parole, basta un colpo
d’occhio per capire che Sago è un
paese scalcinato: una serie interminabile
di catapecchie di fango, col
tetto di paglia o frasche, circondato
da un mare di verde, composto da
un intrigo di liane e varie piantagioni,
su cui svettano alberi secolari. Unici
edifici in muratura sono la scuola
e la missione: chiesa, casa dei padri
e convento delle suore.
Fino al 1997, anno in cui fu istituita
la parrocchia, la missione di Sago
dipendeva da Sassandra, 60 km distante.
Una volta all’anno, un prete
ne visitava alcuni villaggi, sparsi nella
foresta per un raggio di una cinquantina
di chilometri, limitandosi a
qualche catechesi e amministrazione
dei battesimi.
Oggi la parrocchia è servita da tre
missionari africani: il kenyano Zaccaria
King’aru, parroco e superiore
del gruppo dei missionari della Consolata
in Costa d’Avorio, coadiuvato
dal congolese Victor Kota e dal
kenyano Joseph Omondi. Tutti e tre
formano una comunità affiatatissima,
in cui ho vissuto giorni indimenticabili
di frateità e amicizia.
Da due anni sono presenti anche
tre suore di s. Gemma Galgani: l’italiana
Maria Pia e le congolesi Monique
e Veronique. Benché impegnate
ancora nella costruzione del convento,
collaborano a pieno ritmo
nelle attività religiose e formative
della parrocchia e gestiscono un dispensario
che supplisce all’inefficienza
di quello governativo.
«Fino a quattro anni fa, nessuno
conosceva Sago – afferma il capo
Raphael -. Appena vi si è stabilita la
chiesa cattolica, il governo ha deciso
di sceglierlo come sede della sottoprefettura:
ora il nome di Sago appare
su tutte le cartine geografiche.
Grazie alla chiesa cattolica esso è diventato
il centro religioso a cui fanno
riferimento decine di villaggi;
presto lo diventerà anche sotto l’aspetto
amministrativo».
La costruzione della chiesa e la
promozione del villaggio a sotto-prefettura
aveva innescato una serie di iniziative
destinate a cambiare il volto
del luogo: fu spianato il terreno e
scavate le fondamenta della sede amministrativa;
ma tutto è stato risucchiato
da abbondante vegetazione.
Qualcuno cominciò a fare blocchi di
cemento, ben presto anneriti dalle
piogge e coperti dalle erbacce, perché
a nessuno è venuta la voglia di costruire
abitazioni in muratura.
Sotto l’aspetto religioso, invece, i
cambiamenti sono già evidenti. Oggi
la parrocchia di Sago conta oltre
2.000 fedeli, 600 dei quali battezzati
in questi anni. Le 35 comunità sparse
nella foresta si sono rianimate: la
domenica le piccole cappelle di fango
sono insufficienti a contenere i fedeli,
costretti a seguire la messa sotto
il sole. Si moltiplicano dappertutto
i catecumenati, anche se si trova
difficoltà a reperire personale idoneo
per il regolare svolgimento dei tre
anni di preparazione al battesimo.
Bisogna fare i conti col personale
disponibile. Alcuni catechisti sono
pieni di buona volontà, ma mancano
d’istruzione. «Mesi fa – racconta
padre Joseph – mandai una lettera a
una comunità per comunicare la data
della celebrazione della messa; ma
quel giorno non trovai nessuno. Domandai
al catechista se avesse ricevuto
il mio messaggio ed egli rispose
seraficamente: “Ecco la lettera,
padre; l’uomo che sa leggere è andato
ad Abidjan”».
«Un altro – aggiunge padre Zaccaria
– sa leggere, ma è poligamo incallito;
è orgoglioso del suo lavoro, anche se spesso gli dico che non è un catechista,
ma un pagano che insegna
agli altri a diventare cristiani».

FRATELLI… IN ADAMO
In compenso tutta la gente è cordialissima
e apprezza la presenza e il
lavoro dei padri e delle suore. Mentre
padre Zaccaria mi guida per le
strade del villaggio, uomini e donne,
vecchi e bambini, cristiani e musulmani
salutano da lontano o accorrono
per darmi il benvenuto, stringerci
la mano, augurarci buon giorno,
chiedere notizie o scambiare quattro
chiacchiere.
Dopo il capo tradizionale, padre
Zaccaria mi fa conoscere l’iman dei
musulmani nord-avoriani: ci accoglie
con solenne cortesia e m’invita a sedermi
su uno scanno simile a un trespolo
più che a una sedia. Preferisco
una modesta panca, per rimanere
con i piedi per terra.
«Qui niente male» esordisce l’iman
in francese stentato: vuole dire che, a
differenza di altre zone del paese, a
Sago non esistono tensioni etniche o
religiose. «Siamo tutti uguali – continua
masticando inglese, quando il
padre gli dice che vengo dall’Italia -.
Tutti discendiamo da Adamo e apparteniamo
allo stesso Dio. Non si
deve mescolare la religione con la politica.
Cristiani e musulmani dobbiamo
lavorare insieme».
Padre Zaccaria conferma le relazioni
amichevoli esistenti tra cristiani
e musulmani e continuiamo la visita
al villaggio. Non c’è molto da vedere,
ma tanto da scoprire: prima di
tutto, quanto sia lontana la parentela
in Adamo. Il paese cosmopolita è
diviso in varie zone: al centro vivono
gli autoctoni godié; attorno gli avoriani
provenienti da altre regioni del
paese; in un estremo i burkinabé, che
costituiscono la maggioranza della
popolazione; in quello opposto altri
gruppi stranieri.
«I godié – spiega padre Zaccaria –
si ritengono padroni della foresta e
lavorano poco: hanno affittato le loro
terre agli immigrati, che si dedicano
alla coltivazione di cacao, caffè,
palma da olio e altri prodotti agricoli
». A guardare le case e il tenore di
vita, non c’è alcuna differenza tra padroni
e immigrati.
Sotto l’aspetto religioso la distinzione
è palpabile: i godié sono in
maggioranza di religione tradizionale;
i musulmani sono divisi in tre o
quattro gruppi, con relativi iman e
moschee, si fa per dire, trattandosi di
costruzioni più scalcinate delle abitazioni.
Ce n’è una per gli avoriani
provenienti dal nord del paese,
un’altra per i burkinabé, altre ancora
per i differenti gruppi stranieri.
Solo i cristiani sono sparsi dappertutto,
come il lievito evangelico, destinato
a fermentare tutta la massa.
Ma le diversità linguistiche e culturali
costituiscono un’altra sfida per
l’evangelizzazione.

BABELE DI LINGUE E CULTURE
È domenica. Accompagno padre
Victor nella comunità di Chartier, a
una ventina di chilometri dal centro.
Alle nove inizia la messa. Il padre mi
presenta alla piccola comunità, parlando
in francese; i catechisti Alfonso
e Beard traducono rispettivamente
in godié, per i fedeli locali, e in
moré, per quelli del Burkina Faso. La
celebrazione procede con lo stesso
ritmo per quasi tre ore: letture, omelia
e avvisi finali in tre lingue; gli
stessi idiomi si alternano nei canti.
Alle 12 ci sediamo davanti a un
pentolone di riso e un tegamino di
salsa e pesce, insieme ai responsabili
della comunità: una dozzina di uomini
e due donne. L’atmosfera è cordialissima.
Si ride e si scherza. Mi
sforzo di sorridere anche quando
non capisco. Ma non posso fare a
meno di ammirare e ringraziare la
gentilezza della gente, quando mi
viene offerto un bel gallo ruspante,
come segno di ospitalità.
«Le due signore sedute assieme a
noi sono godié – mi bisbiglia a un certo
punto padre Victor, per farmi notare
un dettaglio culturale -. Le donne
del Burkina, invece, dopo aver
servito cibo e bevande, sono scomparse
per mangiare tra di loro. Ciò
avviene anche il giorno delle nozze
dei burkinabé: lo sposo mangia e beve
con gli amici; la sposa fa festa insieme
alle altre donne: è il risultato
dell’influsso che l’islam ha esercitato
per secoli in quel paese, ma non
ancora penetrato nella società avoriana».

COSTRUIRE LA FAMIGLIA
Per costruire l’unità della famiglia,
i missionari insistono che genitori e
figli mangino insieme. A forza di battere,
qualcosa sembra cambiare, come
posso constatare a Bobodou, una
piccola comunità a 25 km da Sago,
dove si celebra il matrimonio di tre
coppie burkinabé: al momento del
pranzo, sposi e spose mangiano alla
stessa mensa. Padre Zaccaria gongola
di gioia, anche se le mogli sembravano
sedere sulle spine. A renderlo
ancora più felice è il matrimonio
del catechista. «È
la prima volta che
due giovani vengono
all’altare direttamente
dalle proprie case,
senza previa coabitazione
e prole appresso» mi confida.
Formare famiglie
cristiane, una sfida in
tutta l’Africa, è una
priorità per i tre missionari,
che sfruttano
ogni occasione a tale
scopo. Così, le coppie
regolarmente sposate
con rito cristiano della
comunità di Sago,
appena una dozzina,
diventano centro di
attenzione nella festa
della Famiglia di Nazaret,
la domenica
dopo natale: ben vestiti
e fiori all’occhiello,
gli sposi entrano in chiesa in processione
e si siedono in prima fila;
dopo l’omelia ogni coppia si scambia
anelli e promesse di amore e fedeltà,
come il giorno delle nozze, tra
gli applausi dei presenti.
Anche dopo la messa si continua a
celebrare: la comunità ha preparato
il pranzo per tutti i membri delle famiglie
festeggiate e si prosegue sino
a tardo pomeriggio con giochi, canti
e danze. Finalmente anche le donne
burkinabé si sbloccano, improvvisando
danze tradizionali, in cui
perfino suor Maria Pia azzarda qualche
piroetta.

CAPRETTI «A DUE ZAMPE»
«Siamo in un ambiente di prima evangelizzazione
», afferma padre Victor.
«Anzi, di pre-evangelizzazione –
incalza padre Joseph sorridendo -,
almeno per quanto riguarda la popolazione
locale».
La maggior parte dei cattolici e catecumeni
della missione di Sago, infatti,
sono di origine burkinabé; mentre
gli autoctoni, pur simpatizzando
per la chiesa, sono lenti ad abbracciare
i valori del vangelo. A frenarli è
un groviglio di superstizioni che sfocia
in sacrifici umani, offerti agli spiriti
della foresta per placarne l’ira o
attirae i favori a beneficio della comunità
o del singolo individuo.
Quando Sago fu promossa sottoprefettura,
la gente iniziò a sognare
strade asfaltate, elettricità, telefono…
e gli anziani dissero che, prima di avviare
tali progetti, bisognava fare sacrifici
agli spiriti. E si sentì raccontare
di scomparse misteriose. Padre
Flavio Pante, allora parroco di Sago,
e padre Zaccaria tuonarono dentro e
fuori della chiesa.
A innescare la reazione dei missionari
fu anche l’avventura di Rebecca,
una gemellina cristiana di 4 anni, vittima
designata per favorire il successo
di un commerciante. La bimba fu
rapita da uno sconosciuto; ma la tempestività
della ricerca da parte di parenti
e vicini non diede tempo al rapitore
di allontanarsi e permise alla
bambina di approfittare del trambusto
per fuggire e tornare in braccio a
sua madre.
Pochi giorni dopo, lo sconosciuto
era seduto al chiosco gestito dalla
madre di Rebecca per consumare alcune
frittelle; la bambina cominciò a
strillare: «Mamma, è quello l’uomo».
Il cliente non capiva la lingua della
bimba e la madre ebbe tutto il tempo
per farlo arrestare; ma, portato in
tribunale, il rapitore fu assolto per
mancanza di testimoni.
Per vari mesi non si registrarono altre
scomparse. L’estate scorsa, dopo
che padre Flavio ebbe lasciato Sago,
gli anziani tornarono alla carica. «Ho
avuto in mano la lista di 40 giovani,
di vari villaggi, candidati al sacrificio
– racconta padre Zaccaria -. Dodici di
essi erano di Sago. Sono fuggiti per
scampare al pericolo. Appena avuto
sentore di ciò che si stava macchinando,
abbiamo ripreso a martellare
tutte le comunità. Ora non si sente
più parlare di questo barbaro costume.
Ma fino a quando?».
La pressione sociale e culturale degli
anziani, custodi accaniti delle tradizioni,
è così forte che anche i cristiani
stentano a scrollarsi di dosso tale
mentalità. «La prima volta che il
vescovo venne a Sago per le cresime
– continua padre Zaccaria – uno dei
fedeli gli domandò come dovesse
comportarsi un cristiano di fronte al
sacrificio del capretto. E si sforzava
di chiarire il suo pensiero, finché il vescovo
disse: “Ho capito, ho capito!
Parli d’un capretto a due zampe”».
Nel marzo del 1993, a Béoumi, nella
regione natale del presidente Boigny,
il 55enne missionario francese
Adrien Jeanne fu trovato morto con
la gola squarciata: gesto rituale dei sacrifici
umani. Corse voce che il delitto
fosse legato alla salute del presidente,
ormai spacciato da un tumore:
uno stregone avrebbe sentenziato
che solo il sangue di un uomo bianco
e vergine avrebbe potuto salvare
la vita al presidente.
Inutile ricordare che il presidente
morì lo stesso anno. Tuttavia la diceria
dimostra che, nonostante tali fatti
siano condannati dalla legge come
crimini, la mentalità è radicata su
scala nazionale, nella polizia e nelle
istituzioni che dovrebbero difendere
la vita, fino ai livelli più alti della
società avoriana.

PARTIRE DAI GIOVANI
Cosa fare per liberare la gente da
paura, superstizione, magia e altri elementi
culturali negativi?
I missionari s’interrogano e propongono
qualche priorità. «Bisogna
cominciare dai giovani: sono loro il
futuro della chiesa e del paese» afferma
padre Victor, incaricato della
formazione giovanile in tutta la parrocchia.
«Fin dai primi incontri nelle
comunità e nei raduni qui al centro
– racconta il padre – ho incontrato
difficoltà enormi: moltissimi
giovani non sanno né leggere né scrivere.
Ho deciso di cominciare da zero,
dalle cose più semplici, coniugando
formazione religiosa e alfabetizzazione».
Le statistiche riportano che il 60%
della popolazione della Costa d’Avorio
è analfabeta. La percentuale è
ancora più elevata nelle zone rurali
come Sago, dove esiste solo la scuola
elementare per 300 alunni, mentre
la maggioranza dei bambini sono
abbandonati a se stessi o costretti a
lavorare nelle piantagioni.
Per chi volesse continuare gli studi,
la scuola secondaria più vicina è
a Sassandra, 60 km da Sago. Quei
pochi che tentano l’avventura, tornano
a casa frustrati, poiché a Sassandra
non ci sono possibilità di alloggio
né famiglie disposte ad assumersi
la responsabilità di seguire i
giovani studenti.
«Ormai speriamo solo nella chiesa;
il governo promette molto, ma non
realizza niente» confessa il capo
Raphael e, rivolgendosi a me, continua:
«Ti prego perché, come esponente
della stampa, faccia conoscere
in Europa le nostre necessità e inviti
i superiori del tuo istituto a pensare a
una scuola cattolica qui a Sago. È vitale
per il nostro futuro: i quadri esistenti
qui e a livello nazionale, io
compreso, provengono tutti da scuole
cattoliche».
Padre Zaccaria sorride sotto i baffi
e mi fa una strizzatina d’occhio:
promettiamo tutti e due di fare il
possibile per mantenere vivo tale sogno
e di pregare perché possa presto
realizzarsi.
Intanto, padri e suore continuano
a soddisfare speranze più modeste:
nel centro e in varie cappelle hanno
già organizzato corsi di alfabetizzazione
per giovani e adulti; tra qualche
mese, quando sarà terminata la
costruzione del convento, alcune
sale a pianterreno accoglieranno i
bambini dell’asilo. Sono iniziative
rasoterra, ma indispensabili
per volare un po’ più
alto.

Benedetto Bellesi




IL BUON SAMARITANO… COMUNISTA

Ho letto «la parabola di Luca».
Pensate che il vostro mensile
sia letto da imbecilli? No. La parabola
del buon samaritano è stata
stravolta da GIANCARLO TELLOLI, proponendo
come esempio un comunista.
L’autore della lettera conosce forse
molto poco di quanto è successo
in Russia dal 1917; non conosce o fa
finta di dimenticare cosa sta facendo
oggi la Russia, zitta zitta, in Cecenia,
massacrando un popolo che
chiede solo l’indipendenza. Peccato
che Missioni Consolata non scriva un
articolo (naturalmente onesto) sulla
situazione cecena!
Caro Giancarlo, senza guerra, sotto
il comunista Stalin furono uccisi
e torturati milioni di persone: legga
il libro da poco pubblicato sul «comunismo».
Mi stupisco che Missioni
Consolata pubblichi lettere come la
sua, che io definisco demente, e non
quelle che dicono la verità.

Quante lettere sono state cestinate
da Missioni Consolata? In che cosa consisteva
la loro verità?… Alla Cecenia la
nostra rivista ha dedicato ben due dossiers,
scritti da B. BALESTRA, esperta di
problemi russi: documentano una tragedia
di enormi proporzioni, con atrocità
commesse dai soldati russi e dai
guerriglieri ceceni (Missioni Consolata,
marzo 2000 e marzo 2001)… Abbiamo
pure denunciato l’invasione sovietica
dell’Afghanistan (Ivi, dicembre 1989).
«Un uomo scendeva da Gerusalemme verso Gerico»
(Lc 10, 30). Ma a Kabul…

GIOVANNI VIOTTO